L'AVARO di Molière al Teatro Quirino (Roma) dal 15 al 27 ottobre

Comunicato Stampa 
L’AVARO di Molière
con Lello Arena, Fabrizio Vona, Francesco Di Trio, Valeria Contadino, Giovanna Mangiù, Gisella Szaniszlò, Fabrizio Bordignon, Enzo Mirone
musiche Paolo Vivaldi
scenografo Luigi Ferrigno
costumi Maria Freitas
foto di scena Max Malatesta
regia Claudio Di Palma

Quando ci si appresta a preparare l' ennesimo allestimento di una commedia classica è sempre lecito porsi una domanda: quale perdurante valore consente ad alcune scritture teatrali di attraversare i tempi incontrando e provocando in modo continuo e sempre nuovo l'interesse di pubblico ed artisti? Nel caso specifico de L'avaro di Molière ci si chiede anche cosa permetta all'aridità spirituale e materiale di Arpagone di essere ancora oggi tanto leggibile e fruibile; cosa le abbia consentito di attraversare con imperturbabile credibilità quelle trasformazioni radicali che in circa tre secoli hanno caratterizzato la vita pubblica e privata degli uomini. È certo che l'artificio drammaturgico molieriano sia informato di caratteri espressivi dalla efficacia oggettiva e che questo rappresenti un motivo fondante e sufficiente che giustifica le riproposizioni. Esiste, però, un altro valore altrettanto incontrovertibile che fa da contrappunto alla meticolosa tecnica di punteggiatura teatrale di Molière. E' quello evidenziato e rappresentato da un mondo intimamente corrotto di straordinaria e persistente contemporaneità che si articola intorno al vizio capitale dell'avarizia. Un mondo che Molière anima di complottismi, di ipocrisie, di opportunismi, di raggiri, di arrivismi, e che abita di fingitori, spreconi, faccendieri, mediatrici, sensali di fronte ai quali l'avaro Arpagone si erge quasi come figura consapevole e sinceramente reo-confessa, pervasa, infondo, da una profonda onestà intellettuale. Lui è naturalmente complementare a tutti gli altri, il suo vizio lo conduce ad una solitudine apparentemente compiaciuta e strafottente, ma che lo costringe a perdere poi quasi più di quanto abbia cercato di trattenere. È incapace di donare il suo tempo e se stesso, valuterebbe il dono come una perdita e la perdita è spreco e lui è un economo conservatore, non può sprecare. È un posseduto dal denaro, accumula ma non usa, diffida, sospetta, accusa, impone, capitola e subdolamente si riabilita, la sua insana fragilità lo destina al drammatico succedersi di buffo e tragico.

Una ritmica recitativa incalzante, mira all' esasperazione del vertiginoso virtuosismo teatrale del testo, la ricerca di una riproducibilità di passioni vere, ancorché viziate, tende a conferire caratteri di ulteriore credibilità agli stilemi dialogici dell'epoca, la individuazione di uno spazio irreale dove abbia ragione e luogo la storia ne segnala la atemporalità. I personaggi sembrano addirittura attraversare le epoche (come se la tela si aprisse nel '600 e calasse sul 2000) in una successione di stili che si snoda nell'immutabilità della trama originaria. Intorno un perimetro, quasi museale, di teche che custodiscono una nutrita e cangiante collezione di sedie. (il collezionismo come altra declinazione dell'avarizia: ossessione del possedere?) Sedie di epoche diverse in cui è possibile leggere il segno del potere, ma anche quello dell'assestamento e, conseguentemente, dell'impigrimento e della devitalizzazione. Simbolo e segno, insomma, di quella depressione dissimulata di Arpagone che gioca, combatte e si dimena con indomito furore e spaesata dabbenaggine contro le maschere della borghesia e contro i fantasmi della propria psiche.

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