Concorso letterario "Racconti di Natale": "Settantotto", di Giuseppe Piscino

"SETTANTOTTO" di Giuseppe Piscino

Mi son tagliato i capelli e non ho più la barba, lunga, che mi contraddistingueva a chilometri di distanza, sebbene in questi anni, siano in tanti ad andare in giro “conciati come i peggio barboni” per dirla con il mio fratellino.
Eccolo qui, seduto vicino a me, con lo sguardo vigile a controllare tutto e tutti. Alessio ha poco meno di undici anni, ma ha un’intelligenza così sviluppata che, spesso, mi fa impressione ed il più delle volte mi inorgoglisce.
La mattina della vigilia di Natale, son arrivato senza dire nulla. In cucina, la statura bassa di mia madre, il suo sguardo cristallino, i capelli bianchi, non certo per l’età, ma per tutte le torture psicologiche subite per questo figlio, da piccolo così silenzioso e timido, che un giorno, da grande ha preso in pugno una pistola.
“Colpa di tuo nonno, è solo colpa sua” mi disse quando lo venne a sapere ed aveva così repulsione della mia scelta che evitava di dire “mio padre”. Da quel momento, appunto, divenne “tuo nonno”.
Sante, c’è anche lui, a capotavola, ça va sans dire…Sigaretta senza filtro tra le mani, gomiti poggiati sulla tovaglia rossa e bicchieri puliti, sembrano nuovi, nonostante gli anni. Usati ad ogni Natale, come le posate, regalo di nozze della zia Anna.
Fuma in silenzio, Sante, esiliato a ventidue anni, in Francia, dopo vari sabotaggi ed un assalto andato a buon fine in un’adunata.
Sante che quando la guerra prese una svolta, ritornò a casa e fu tra i primi ad andare sulle montagne e da lì, non si soffermò ad osservare la natura, il suo corso. Il tempo sembrava scappargli da mano ed organizzò, lottò come un guerriero invincibile.
Uno di quegli uomini che diventano mito e che tutti i bambini vorrebbero avere al fianco, per poterlo ascoltare, per camminare mano nella mano, per essere lanciati in aria.
“Il capitano Pietro è mio nonno, lo sai?”
Quante volte, da piccolo, ho ripetuto questa frase. Parlavo poco, ma quel poco che dicevo mi riempiva di orgoglio, mi faceva sentire accettato da tutti.
Il nipotino di Sante, l’eroe, l’uomo che prendeva a morsi la vita, senza saziarsi mai, con gli occhi chiari e le mani sporche di terra.
Eh sì, oggi c’è anche lui, ateo come tutti, intorno a questa tavola, con il pretesto del Natale a cercare, almeno per due ore, un po’ di pace.
“L’altro ieri son venuti di nuovo, di notte e stavano mettendo la casa sottosopra. Tuo nonno li ha fermati, ha urlato ed Alessio si è svegliato, come sempre”.
“Ero già sveglio, la prossima volta, quando mi alzo, glielo dico che quello che fanno, non serve a nulla”.
“Un figlio pazzo già mi basta, fai silenzio o resti senza mangiare”.
La voce di mia madre è più dura del solito. E’ una roccia che sto contribuendo a disgregare e questo pensiero, invece di fermarmi, mi fa proseguire ancora più convinto a far la guerra ad uno Stato che calpesta quotidianamente il popolo.
“Rosa, smettila. Oggi dobbiamo starcene tranquilli e con gli occhi aperti. Quello che è stato fatto è il passato. Ora siamo qui, intorno a questo tavolo e dobbiamo cercare la serenità, anche per poco, come quando c’erano ancora Antonia e Giuseppe”.
Mia nonna e mio padre, scomparsi troppo presto, così si dice, vero?
La prima se ne andò via in una notte di primavera, con i cani che abbaiavano e mio padre che piangeva disperatamente. Lui, orfano di entrambi i genitori, preso sotto l’ala protettrice di questa donna minuta e con la voce roca.
La nonna Antonia, il suo sugo speciale alla vigilia di Natale, non lo dimenticherò mai. L’ultima a sedersi a tavola, la prima ad alzarsi, nonostante le proteste di tutti i commensali. Andava avanti, la moglie di Sante, senza fermarsi mai. Se il mito era lui, ecco, il vero mito, per lui, era lei.
In poche parole un pensiero scolpito nei decenni di questa coppia bellissima.
Il sugo preparato ieri sera da mamma Rosa è altrettanto speciale ed oggi, mentre serve a tavola il suo sguardo si addolcisce ed immalinconisce allo stesso momento. Da una carezza ad Alessio e nel frattempo, lo so, pensa a suo marito, morto sul lavoro, al primo turno, verso le 12 di un giorno caldissimo, due anni fa.
Ero già in clandestinità, vivendo lontano da tutti, nel centro di una città calda, caotica, sporca e bellissima. Son venuto a saperlo due mesi dopo, all’incontro in un mercatino con un compagno. Mi ha riferito la notizia e fino all’attimo prima ero felice.
In giro, in silenzio per non far trapelare il mio accento e captare quello del popolo, tenendolo a mente e ripetendo le parole dei fruttivendoli, degli uomini delle pescherie a cielo aperto, dei venditori di scarpe, abiti, pezze colorate.
Giuseppe, un’altra morte bianca e la rabbia era così senza controllo che volevo partire, andare, aspettare sotto casa il padrone e sparare.
Sparare al caporeparto, al capo del personale, sparare e non fermarmi.
L’organizzazione è settoriale, rigidissima e con due parole stopparono il mio impeto.
Il posto a tavola dove c’era Giuseppe, vicino al piccolino di casa, è occupato da Dolores, la piccolina. Il clone di mia nonna, lo stesso taglio degli occhi, lo stesso colore, gli zigomi identici, gli stessi orecchini, tramandati di generazione in generazione.
“Voglio poco brodo e tanti cappelletti!”
Da quanto tempo non sentivo la sua voce e sorrido, la accarezzo. Mi sorride e prende il formaggio da grattugiare.
“Non esagerare, altrimenti mangi formaggio e pasta e poi non hai voglia di altro” ripete più volte mia madre.
“Perché non diamo da mangiare a Primo?”
Alessio lancia la domanda, giustamente colpito dal fatto che il cane non mangi prima degli altri.
Sante, con il cucchiaio a mezza aria, osserva il piatto e senza alzare lo sguardo controbatte, più con un auspicio che con una risposta.
“Primo non è abituato a mangiare dopo di noi, ma dovrà aspettare parecchio, fino a sera. Si arrabbierà per questo e sarà più nervoso del solito e se sente rumori, anche non vicini, darà di matto.E questo sarà un bene”
Alessio, dall’alto della sua fanciullezza ha capito, Dolores pensa a far nevicare formaggio e mia madre si siede e si fa il segno della croce, bisbigliando qualcosa.
Un cucchiaio in bocca, masticare lentamente, il brodo bollente, deglutire. Un altro cucchiaio verso la bocca e da quanto tempo non mangiavo squisitezze del genere.
Chiudo gli occhi ed il calore del momento, mi avvolge e cattura, ben sapendo che dopo pranzo devo scappare nella nebbia, così come son venuto e devo esser vigile. E’ vero che il cane fa ottima guardia, ma le guardie son scaltre e non si fermano nemmeno nei giorni di festa.
Qualche reazionario bastardo, tra loro, pagherebbe per mettere le mani sul nipote di Sante.
Ho due pistole con me. La più grande è tenuta dalla cintura dei pantaloni, l’altra è nel giubbotto e son pronto ad usarle, se attaccato.
Del resto, il nonno mi ha insegnato a sparare, quando ero piccolo. Prima con il fucile da caccia, poi con una delle sue pistole che aveva conservato.
Una l’ho ancora, è nascosta nel covo e l’ho usata varie volte. Mia madre non lo sa o forse non vuole saperlo, Alessio lo immagina, la sorellina ignora e Sante mi rimproverebbe se l’avessi tenuta chiusa in un cassetto, come un sogno non realizzato.
“Ti ricordi quando mi portavi sui monti a raccogliere castagne?”
Non so perché è venuta fuori questa domanda ed il nonno sorride, nel suo sguardo vedo l’indefinito, il ricordo di quei giorni.
Io che correvo, cadevo, urlavo e lui che lasciava fare, avvolto in un mantello che lo faceva sembrare ancora più imponente.
“Ha portato anche noi, ad ottobre, lo sai?” sorride Alessio e Dolores chiede altro formaggio, mia madre scuote il capo e mi alzo per andare vicino ai fornelli.
Stufa accesa, umidità fuori dalla porta e dalla finestra osservo la campagna, il suo dormire, il silenzio, spezzato dai movimenti di Primo.
Ritorno a tavola ed il cotechino va a braccetto con il vino rosso, lo zampone fa l’amore con le lenticchie e gli occhi di mia madre dicono di restare lì per la sera. Vorrebbero fermare il tempo e farlo tornare indietro, per cambiare le cose, per fermare i miei propositi, la mia fuga.
Alessio si alza, rincorre la sorellina e mio nonno beve, accende una sigaretta e la cucina a legna emana ancora più calore.
Legna che arde, parole che vanno sempre più lente e poi la mostarda, la frutta…il panone, il mio dolce preferito.
“Dio mio, quanto ne mangiavi da piccolo. Era l’unico dolce che ti piaceva e siccome non eri di buon appetito, te lo preparavo in ogni periodo dell’anno”.
Sorride mia madre e vorrei darle una, due, tre carezze, ma non lo faccio, resto fermo. Sta arrivando il momento più difficile per lei e devo farlo scorrere velocissimamente, devo andare via in un momento, un minuto, un attimo.
Raggiungo Alessio, prendo in braccio Dolores e la bacio.
“Quando torni mi porti una cosa buona?”
Stavolta sono io a sorridere e le do un altro bacio.
“Certo, sarà una bella cosa, vedrai”
Alessio non chiede, non dice nulla, lo bacio in fronte e sa benissimo che, della mia visita, non deve parlarne con nessuno. Sarà muto, negherà anche di fronte all’evidenza, crescerà ancora più oltranzista di me.
“Ragazzo, occhi bene aperti”
Quattro parole di nonno Sante ed un abbraccio fugace, dicono più di un discorso chilometrico di Fidel Castro.
C’è da salutare mamma e scappa una carezza sul suo viso dolce, segnato dal dolore.
“Non ti preoccupare, stai tranquilla. Non ti preoccupare”
Mi abbraccia, la abbraccio. Metto il giubbotto, esco, mi volto e Primo scodinzola felice. Entro in auto, accendo i fari e vado.
All’uscita del lungo vialone la nebbia diviene ancora più fitta. Il serbatoio è quasi pieno, tirerò dritto per trecento chilometri senza fermarmi e questo proposito, questo pensiero, dura un attimo.
Al semaforo dell’incrocio che porta fuori paese due auto, ferme, si materializzano nella nebbia.
Tre uomini in divisa si parano al centro della strada, fanno cenno di accostare.
Ho carte di identità e patente falsi con foto recenti, che in qualsiasi altra parte della nazione funzionerebbero, ma non qui, a due chilometri da casa mia, dove anche le zolle, i fossi, sanno chi sono.
Accosto, superando le auto in sosta.
Si avvicina un solo agente, sono tranquillo. Il vetro del finestrino scende lentamente, la nebbia entra nell’abitacolo.
“Documenti, prego”
Guardo l’uomo, ha la mia età, è magro e sembra non in allarme, ma ha uno sguardo indagatore.
Mi volto subito per non far vedere il viso, apro lo sportellino del cruscotto.
“Può scendere dall’auto, per favore?”
Uno, due, tre secondi ed ho già impugnato la pistola nella tasca destra del giubbotto.
Rapidamente la estraggo, mi volto e sparo tre colpi verso il suo petto, metto in moto e scappo via a tutta velocità, dovrò lasciare l’auto appena possibile e poi non so cosa accadrà. Ora devo solo sparire nella nebbia.
Intanto stasera il mio volto, quello con barba e capelli lunghi, sarà già visibile in tutti i telegiornali, come un Gesù Cristo sbagliato.
Buon Natale, Italia.

LIBRI & CULTURA CONSIGLIA...