Concorso letterario "Racconti di Natale": "A Natale", di Daria Romanini

"A NATALE" di Daria Romanini

La neve non si era fatta ancora vedere.
I profili sfocati delle case si ergevano dinanzi ai vetri appannati della finestra, il tetto del campanile pareva volare su un manto grigio impalpabile, le vicine chiome dei pini tendevano le foglie verso la casa, come a volersi scaldare.
Qualcuno aveva già acceso le luci intermittenti sui balconi, oppure aveva dimenticato di spegnerle la sera prima, chissà.
I dodici rintocchi raggiunsero Marica mentre spegneva il phon e tirava su la testa per specchiarsi. I ricci le donavano, ma per averli folti e spettinati, come piacevano a lei, doveva asciugare i capelli con la testa all’ingiù, restando in quella posizione per mezz’ora almeno.
“E’ ora.” si disse.
Indossò veloce il maglione rosso che un anno prima le aveva regalato Andrea, le calze coprenti, la gonna al ginocchio e uscì dal bagno. La sua casa aveva il difetto di essere troppo vicina alla Chiesa.
Andò nella camera da letto, si guardò allo specchio, decise che le sue guance erano eccessivamente pallide e tornò in bagno per prendere il fondotinta e la cipria. Non voleva

essere bella, ma almeno presentabile.
Prese il cappotto, mise gli stivali, afferrò la borsa e finalmente uscì.
C’era un silenzio ovattato nel giardino condominiale. La nebbia divorava tutto, perfino le persone, rendendole liquide ombre che somigliavano a fantasmi.
Marica doveva soltanto attraversare la piazza. Un percorso breve, troppo veloce, che non le consentiva di predisporre il suo animo al consueto incontro e, anzi, la innervosiva oltremodo.
“Buon Natale.” le sussurrò un vecchio passandole accanto invisibile.
“Buon Natale.” rispose lei.
Alcune auto stavano parcheggiando e le sagome scure ne uscivano guardinghe e si infilavano in questo o quel portone, scomparendo. “Hanno fame.” pensò Marica.
Lo stradello che conduceva alla casa dei genitori era stato appena risistemato e passeggiarci con i tacchi non era cosa semplice. Marica si disse che forse avrebbe potuto mettere le scarpe comode, visto che essere alta non le serviva più, ma poi ricordò che non doveva sempre comportarsi come se Andrea non ci fosse, perché in fondo lui c’era, non fisicamente, ma c’era. Suonò il campanello e attese. Faceva davvero freddo.
L’anno prima lui la scaldava, mentre aspettavano che il portone si aprisse. Ora, invece, doveva assorbire tutto quel gelo, e non aveva proprio immaginato che fosse così difficile da sopportare. “Chi è?”
“Sono Marica.”
“Mari, sali!”
Entrando nell’atrio, incontrò un bambino che correva e la superava sulle scale.
“Buon Natale, signora!”
“Buon Natale.”
Una frase di circostanza, di quelle che lei odiava e che doveva comunque pronunciare, se non voleva apparire davvero maleducata.
La verità era che Marica odiava il Natale da quando Andrea se n’era andato. Era accaduto nel mese di maggio di quello stesso anno, ma già allora, nonostante mancassero parecchi mesi, il suo pensiero era andato alla sacra festività, come se percepisse anticipatamente il vuoto che avrebbe sentito nel cuore.
Era stato un addio necessario, che tuttavia l’aveva condannata a una solitudine che non desiderava colmare.
“Buon Natale!” le disse suo padre, facendola entrare nel soggiorno addobbato.
“Anche a te, papà.”
“Dammi il cappotto, che lo porto di là.”
“Buon Natale!” esclamò sua madre, uscendo dalla cucina fumante.
Il finto abete era addobbato con nastri rossi e d’oro e ai suoi piedi era stato allestito un piccolo presepe con una fontana da cui sgorgava ininterrottamente acqua.
“Sono sola?”
“Gli altri stanno arrivando.”
“Sei alta, Mari, come mai?”
“Sono i tacchi, papà.”
“Ah, i tacchi!”
“Buon Natale, carissima!” urlò lo zio Berto, rientrando dal terrazzo col posacenere tra le mani.
“Oh, ci sei anche tu, mi fa piacere!”
Lo zio la baciò su ambedue le guance, urtandola col naso ghiacciato. “Come stai, Marica? Vieni, siediti qui con me!” “Sto bene, grazie.”
“Oh, cara, sei sola?”
Marica avvampò. Non immaginava che ci fossero altri invitati, oltre ai suoi genitori e a sua sorella con il marito e i figli. Se l’avesse saputo, si sarebbe almeno preparata a quella domanda straziante.
Si accomodò sul divano blu notte, l’odore del brodo che le entrava nelle narici, il profumo delle patate arrosto e dei canditi nel panettone comprato in pasticceria.
Suo padre la guardava appoggiato alla parete di fronte, incerto se sedersi pure lui o rimanere fermo, in attesa di disposizioni da parte della moglie. “Sono sola, zio.”
L’uomo annaspò, facendosi cupo.
“Andrea? Dov’è?”
“Non stiamo più insieme.”
“Oh…”
La madre uscì dalla cucina e chiamò il padre, che poco dopo portò sul tavolo della festa una candela accesa. “Perché?”
Capita.”
Già. Capita…Fino a qualche minuto prima, non sarebbe stata capace di dire “capita”…Soprattutto, non l’avrebbe detto con quella pacata tranquillità. Sperò che le domande fossero finite, che arrivasse il resto della famiglia, che l’argomento variasse, fino a farla sentire esclusa.
Non sarebbe stata una novità assoluta, il suo essere estranea agli avvenimenti familiari. Ma prima c’era Andrea. Era tutto diverso.
Chissà cosa pensavano veramente. Quattro anni e tre uomini diversi. Quattro anni e tre disastri sentimentali. Non era da tutti. Forse non era nemmeno da lei.
Si strinse nel maglione, soffocando un sospiro. Era Natale, doveva essere felice per forza, suo padre non avrebbe retto alcun tipo di emozione, sua madre l’avrebbe incolpata, e lei non era in grado di difendersi. Basta. Il tempo della lotta era finito. Squillò il campanello, facendola sussultare.
“Evviva, arrivano i bambini!” esclamò lo zio gioioso.
La madre corse ad aprire, sorrise a Beatrice, baciò Edo e Lori, salutò con garbo Marco. Il padre, appiattito contro il muro, battè le mani.
Beatrice profumava di gelsomino. Un insegnante della scuola che frequentava da oltre un anno le aveva suggerito di spruzzarne sempre qualche goccia sui polsi per avere un buon rapporto con il marito e lei, da brava allieva, aveva obbedito. Ora quella fragranza la accompagnava ovunque e, anzi, ne faceva odorare la presenza a qualche metro di distanza.
“Buon Natale, Mari!”
“Anche a te, Bea.”
Chissà cosa spinge una madre a chiamare la prima figlia Marica e la seconda Beatrice. Chissà quali considerazioni si fanno spazio nel suo ventre nel corso della gravidanza. Marica sapeva soltanto che il suo nome era stato letto su uno dei fotoromanzi scadenti che facevano da cornice ai settimanali. Beatrice, invece, evocava gli studi che la mamma aveva dovuto interrompere per sposarsi, già incinta di Marica.
Beatrice diede la pelliccia al padre e si mostrò vestita di un bell’abito carminio, lungo fino alle caviglie. Era una donna elegante e viziata, anche se nessuno mai l’avrebbe ammesso. Aveva partorito due figli maschi che le somigliavano in modo impressionante, sia nel volto chiaro, sia nel carattere capriccioso, ma nel suo cuore continuava a desiderare una femmina.
Marco, il marito, era un appassionato di musica classica. Presenziava a ogni concerto, si ritrovava con gli amici del conservatorio tutti i venerdì sera e con loro improvvisava melodie fuori tempo.
Beatrice sosteneva che Marco la tradisse con una violinista più grande di lui e si lamentava di tale presagio con chiunque le chiedesse come andava il suo matrimonio, tanto che, ormai, nessuno se ne interessava più, conoscendo già la risposta.
La madre accolse la secondogenita con un sorriso compiaciuto, baciandola tre volte per portarle fortuna.
“Sei bellissima, cara. Marco è un uomo fortunato!”
Marco si guardò bene dal replicare; si accese la pipa e si posizionò come sempre vicino alla finestra socchiusa. Invisibile.
Lori ed Edo estrassero dallo zaino i rispettivi telefoni cellulari e si chiusero nel loro mondo virtuale.
Lo zio battè le mani.
“Che bella famigliola!” gridò.
La madre annunciò che era ora di mettersi a tavola, che gli anolini erano pronti.
Il padre sedette a capo tavola, e accanto a lui Marica e Marco. Beatrice prese posto come sempre accanto alla madre e ai figli, che non vollero separarsi dal telefono e vennero inutilmente rimproverati. Lo zio trovò una sedia vicino alla sorella, prese il cucchiaio e diede inizio al pranzo.
Il silenzio regnò assoluto per dieci minuti. Ognuno assaporava il brodo fumante con gusto estasiato, perso nel presente oppure nel ricordo di un Natale passato.
Marica pensava ad Andrea. Non aveva idea di dove fosse, non poteva nemmeno immaginare che trascorresse le feste da solo, al solo pensiero di una simile eventualità le si stringeva lo stomaco e doveva compiere uno sforzo immenso per ingoiare i suoi bocconi. Aveva dovuto accettare la sua decisione di andarsene, esausta per le continue liti che sfociavano in reciproche accuse di sentimenti opportunisti. Lo ricordava mentre la guardava un’ultima volta con quegli occhi da Lucifero e la malediceva sotto voce. Dopo, le aveva addossato tutta la colpa dei suoi fallimenti, facendola sentire cattiva e malefica.
“Che buono questo brodo!” esclamò lo zio, bevendo dal cucchiaio senza curarsi del rumore.
Lori ed Edo lo osservavano sogghignando, si davano gomitate e cercavano lo sguardo complice di Beatrice, mentre Marco era assorto nell’osservazione di qualcosa di misterioso.
“Allora, bambini, come state in vacanza? Niente scuola, niente sveglia la mattina presto, sonno e gioco a volontà!”
I ragazzini rivolsero alla zia un’occhiata annoiata. Fu Lori a risponderle.
“Stiamo bene, zia.” disse soltanto.
Edo alzò gli occhi piccoli e li riabbassò subito dopo.
Marica continuo a mangiare, nella mente il possibile pranzo di Andrea e nel cuore un senso di colpa inspiegabile.
Come se le avesse letto nel pensiero, Lori le chiese, pulendosi la bocca con il tovagliolo: “Andre dov’è?”
Beatrice guardò il figlio astiosa, mentre la madre e il padre tacevano e lo zio leccava dal piatto il parmigiano rimasto.
Marica dovette farsi forza per riuscire a rispondere dignitosamente. Non si aspettava quella domanda, essendo convinta che ogni spiegazione fosse già stata data.
“Non lo so.” disse.
Lori finse stupore e finì i suoi anolini di fretta.
“Voglio il secondo.” disse Edo.
La madre si alzò prontamente per recarsi in cucina.
Beatrice la seguì, prendendo i piatti sporchi e ancheggiando sulle scarpe nuove. Era ingrassata parecchio nell’ultimo periodo, probabilmente a causa delle gocce che usava per dormire la notte. Marco spiò i suoi fianchi voluminosi e appoggiò la testa su una mano.
Marica guardò suo padre. Era evidentemente malato, nonostante l’aria da ragazzo che cercava di darsi, vestendosi con maglioni dal taglio e dal colore giovanili.
“Sei sazio, papa?” gli chiese.
L’uomo sorrise, adagiando il tovagliolo dinanzi a sé. I suoi occhi, un tempo vivaci, stavano sbiadendo, e le palpebre ne ricoprivano buona parte.
“Sì.” rispose.
“Come ti senti oggi?”
“Benissimo!”
“Sicuro?”
“Certo!”
Lo zio, che ascoltava assorto la conversazione, intervenne per farsi una risata. Lori ed Edo gli rivolsero uno sguardo compassionevole.
La madre e Beatrice tornarono nel soggiorno portando due vassoi ciascuna: bollito con salsa verde e arrosto e patate. “Che buono questo pranzo!” gridò lo zio.
Marco si accorse che la moglie aveva gli occhi umidi e sospirò scocciato. Il padre fermò la forchetta a mezz’aria e la madre tossì.
“Che cosa c’è, mamma?” domandò Lori.
Beatrice disse che non aveva nulla, ma la voce le tremava: di lì a poco sarebbe scoppiata a piangere.
Inaspettatamente, Marco si alzò dalla sedia, chiese dove fosse stata messa la sua giacca, si vestì e se ne andò. Nella stanza calò un silenzio di tomba.
“Ma dove è andato?” chiese stupito lo zio.
La madre, che stava portando un pezzo di carne in bocca, gettò all’improvviso la forchetta sul tavolo e puntò minacciosa verso il marito. “Sei falso, tu!” lo accusò.
L’uomo non ne fu neanche troppo sorpreso; continuò a masticare piano, alternando pezzi di pane e carne.
Beatrice fissò suo padre con un misto di disprezzo e pena, aspettando una sua reazione. Lori la guardava ed Edo guardava Lori. Lo zio fissava un punto impreciso nella stanza, indeciso se tacere o porre la domanda sul perché Marco se la fosse svignata. Marica rimpianse la presenza di Andrea.
“Sei sempre stato così, non hai mai detto la verità, preferisci tacere, ma ora basta!” continuo la madre “Tua figlia deve sapere cosa si dice in giro di lei, cosa pensa la gente, e deve saperlo perché è tutta colpa di Marco!” Il padre girò gli occhi a destra e a sinistra, quasi a non volere incontrare altri sguardi. Era imbarazzato, più che arrabbiato. I nipoti avevano smesso di giocare col telefono e perfino di mangiare, la madre stava in piedi e Beatrice attendeva una spiegazione col fazzoletto in mano. Marica provava pena per quell’uomo troppo sensibile per creare dissapori e sentiva crescere in sé il disagio per non essere capace di aiutarlo. Bevve un po’ d’acqua e finalmente disse: “ Vorrei capire come mai le persone non si assumono la responsabilità di quanto dicono.” Silenzio. La madre spostò su di lei le pupille viola e non impiegò molto tempo prima di ribattere: “Ebbene, tu, Marica, puoi permetterti di mandare via da casa un uomo che ti rende infelice e tua sorella no?”
Di nuovo Andrea…Ormai serpeggiava nell’aria, fluttuava, si dissolveva e ancora tornava.
“Non intendevo questo, mamma.”
“Tuo padre conosce bene ciò che viene detto sul matrimonio di Beatrice, ma non lo dice perché è falso!”
“Non lo riguarda.”
Marica sentiva dentro una grande forza. Era come se lo spettro di Andrea si fosse insinuato in lei e le infondesse quel coraggio meschino che lo caratterizzava.
“Papà non può risolvere i problemi di tutti. Se qualcuno vuole svelare segreti, deve rivolgersi direttamente agli interessati.”
La madre inorridì. Si sedette rabbiosa e disse: “ Non capisci, Marica. La faccenda è seria e rischia di coinvolgere anche noi! Dì la verità, una buona volta!” e indicò il marito, quasi dormiente.
Il padre si risollevò appena dalla sua posizione semi sdraiata, sbattè le palpebre, sbadigliò e disse, rivolto alla moglie: “Ne parlerò a Marco.” “Ma se n’è andato!” replicò Beatrice, che nemmeno sapeva di cosa stessero in realtà parlando.
“Il papà non ha più la testa!” disse Lori “ Non parla, vive nel suo mondo, ci ignora. Io lo odio!”
“Non dirlo!” implorò Marica.
Edo stava zitto e giocava con il tovagliolo.
Beatrice si alzò e si nascose in bagno. Si sentirono i suoi lamenti e un conato di vomito che per un istante li interruppe.
“La situazione è seria e tua sorella dovrebbe avere il coraggio di lasciarlo!” riprese la madre, rivolta a Marica come a una nemica “Ha sopportato abbastanza! Ora deve prendere una decisione!”
“Non credo sia giusto parlarne davanti ai figli.” rispose Marica.
“En no, zia, tanto noi vediamo che il papà è un idiota!” ribattè Lori.
“Vedi?” disse la madre “Lo sanno anche loro. Tua sorella merita di più.”
“Sarà lei a decidere.”
“Ovvio!”
La madre se ne andò in cucina a fumare.
Marica ne approfittò per rivolgersi al padre e domandargli a bassa voce cosa sapesse di così ignobile sul conto di Marco.
“Dicono che sperpera i soldi di famiglia, Mari. Dicono che non paga le rate del mutuo.”
“Te l’ha detto il signor Capini?”
“Sì.”
Il signor Capini era il direttore della Cassa di risparmio ed era amico del padre da una vita.
La madre tornò e riprese posto accanto ai nipoti.
“Quel coglione ci farà diventare poveri!” si stizzì Lori.
Dopo qualche minuto riapparve anche Beatrice, gli occhi gonfi e il naso rosso, tra le mani il fazzoletto sudicio. Lori andò ad abbracciarla.
“Tu, Marica” riprese la madre “tu hai più coraggio, sei più forte o più insensibile, chi lo sa. Ma lei è debole, lei prende gocce per dormire, dovresti capirla.”
Il padre accese il televisore. Sul canale principale il Papa celebrava la santa Messa. Lo zio battè le mani.
“E’ bravo questo Papa.” disse.
Nessuno lo ascoltò.
La candela si consumava lenta, diffondendo un odore quasi impercettibile.
Marica andò di nuovo col pensiero ad Andrea. Lui aveva compreso le dinamiche familiari e, mentre all’inizio aveva cercato di confortarla, successivamente aveva usato quanto sapeva contro di lei.
“Sei così perché non ti hanno amata.” le diceva a ogni litigio “Non ti rendi conto, ma hai un disperato bisogno d’amore e, siccome non puoi colmarlo, lo ricerchi negli uomini che incontri.” “Non incontro nessun uomo.”
“Sì che lo fai, Mari. A mia insaputa. Non ne puoi fare a meno, tesoro. Ma io sono stanco e prima o poi succede un casino.” “Te lo giuro, Andrea. Io ho solo te.”
“Fosse vero!”
Una notte era rientrato ubriaco. Mari dormiva, lui l’aveva svegliata e, singhiozzando come un neonato, l’aveva costretta ad ascoltarlo.
“Sono solo al mondo, io ho solo te e tu mi tratti così. Sono costretto a bere per dimenticare tutte le mie sofferenze. Vorrei avere una donna che mi ami per quello che sono, invece tu mi tratti come un fallito, non mi desideri nemmeno, mi costringi ad affogare nell’alcol tutte le mie insicurezze. Sei malvagia e ti fingi buona. Sapessi quanto ho desiderato stare insieme a te per sempre! Sapessi quanta delusione ho in corpo ora!
E tu che fai? Tu dormi, benedetta donna egoista! Non mi ascolti neppure! Sai cosa farò domani? Domani andrò sul balcone e mi getterò di sotto.” E s’addormentò. L’indomani non rammentava più nulla, tuttavia si comportò come un bambino indifeso e passò la giornata sul divano con lo sguardo al soffitto.
“Dov’è andato?” domandò lo zio, improvvisamente sveglio.
La madre sbuffò.
“Chi può saperlo?”
“Io lo so!” disse Lori “E’ da Gianni, di sicuro! Va sempre lì quando esce!”
“E cosa va a fare?”
“Ascoltano musica, forse fumano la pipa.” “E come lo sai?”
“Una volta mi ci ha portato. Voleva convincermi che stare a casa è penoso, ma io non sono più andato con lui. Io voglio proteggere la mamma.”
Orgogliosa, Beatrice abbozzò un sorriso. Anche la madre distese il volto rugoso e mangiò un po’ di carne.
Tutti osservarono quel silenzio che segue alle dichiarazioni solenni. Intanto, la Santa Messa finiva, il Papa dava la benedizione alla città e al mondo, lo zio digeriva senza mettere la mano sulla bocca e il padre chiedeva dove fosse il pane.
Marica sperò che il pranzo si facesse finalmente più disteso, ma inevitabilmente la madre riprese a parlare.
“Dovresti proprio chiedere la separazione, Bea.” disse, ponendo un braccio attorno alle spalle della figlia prediletta. “Che cosa?” chiese il padre.
“Hai sentito. Beatrice dovrebbe tutelare sé e i suoi figli e pertanto dovrebbe separarsi. In questo modo i debiti li pagherebbe tutti Marco.” Edo si alzò e andò a giocare con le statuine del presepe.
“Scusate, ma parlarne qui davanti ai bambini…” disse Marica, cercando di mantenere la calma e accantonando il suo desiderio di andarsene.
La madre si ribellò come una furia: “Eccola di nuovo! I bambini sanno, i bambini vedono! Non è perché tu non ne hai che puoi pensare di sapere come si trattano i figli! Bisogna dire la verità sempre!”
“Cara…” sussurrò il padre, prendendo la mano di Marica sotto il tavolo. Poi, però, non ebbe la forza di proseguire: chinò il capo sul tavolo e s’addormentò.
“Dorme!” esclamò lo zio preoccupato “Chi mi riporterà a casa?”
“Non è casa tua, caro, comunque si sveglierà presto, fidati: lui fa così, gli viene sonno, ma dura poco.” spiegò la madre. “Quindi dovrei lasciarlo?” supplicò Beatrice.
“Sì, mamma.” rispose Lori.
Dall’angolo del soggiorno, la voce di Edo si levò flessuosa : “E noi dove andremo?”
Beatrice corse a prenderlo in braccio, faticando non poco, visto che pesava ormai quanto lei.
“Questa famiglia si sfascia ed è tutta colpa sua!” imprecò Lori, battendo i pugni sul tavolo e causando il risveglio improvviso del nonno. “Ssssss, la gente sente!” implorò la madre.
Beatrice stringeva a sé il figlio piccolo, lo cullava come fosse in fasce. Il trucco le era colato dagli occhi e segnava due solchi sulle guance rosa di cipria. Dondolava e intanto pregava così piano che si potevano vedere le labbra che si muovevano, ma non si sentiva la voce che ne usciva.
Marica andò in cucina. Non sopportava più quel Natale, quel pezzo di famiglia che ogni volta la deludeva. Accese la macchina del caffè e spostò le tende per scrutare la casa di fronte. Avrebbe voluto essere altrove, senza sapere dove. Con chi, però, lo sapeva. Aveva un’immagine che la perseguitava e ora la vedeva nitida, quasi fosforescente nella sua luminosità: era Carlo, il suo vicino. Quante volte l’aveva rifiutato! Se Andrea avesse immaginato quanti appostamenti quell’uomo aveva fatto solo per salutarla! Povero Carlo! Era solo, ma così buono! Tutti in paese ne parlavano come di un angelo. Non era bello, tuttavia emanava calore e forse, si disse Marica, averlo vicino sarebbe stato dolce.
“Perché non mi dai ragione?” domandò la madre, interrompendo quella visione inattesa.
Marica fece scendere il caffè nella tazzina di vetro, ci versò lo zucchero, mescolò, bevve.
“Beatrice non vuole.” rispose.
“Ma è inevitabile!”
“Beatrice non è pronta.”
“Parli tu!”
“Pensi che per me questa sia una giornata piacevole? Pensi questo?” “Hai deciso tu! Non avrai ripensamenti?”
“La mia sì che era una scelta inevitabile.” “Solo perché era geloso?” “Sai che non è così.”
“Un marito inaffidabile, un amante bugiardo, un convivente geloso. Oddio Marica, mi sembrano tutti motivi meno validi di quelli che ha tua sorella per chiudere il suo matrimonio!”
“Ti prego di non parlare di Michele, mamma.”
“E perché no? Hai lasciato tuo marito per quell’uomo!”
“Sì, l’ho fatto.”
“Lo rifaresti?”
“Penso di sì.”
“Pur sapendo tutto?”
“Guido e io non avevamo più nulla in comune.”
La madre accese l’ennesima sigaretta e le gettò addosso il fumo, innervosita da una dichiarazione che non condivideva. Non sapeva nulla di Michele, non l’aveva nemmeno conosciuto e lo considerava una meteora nel cielo sentimentale di quella figlia così imprevedibile.
“Io so che tua sorella soffre, piange, è disperata.” disse, con la voce più morbida.
“Se una non piange, non significa che sta bene.” “Ah, Marica!”
Le parve di vederlo, Carlo. Salito sul tetto dell’altra casa solo per salutarla. Perché aveva sempre scelto gli uomini sbagliati? Quelli sfuggenti, quelli che la facevano sentire ogni volta più sola.
Beatrice aveva lasciato andare Edo e si era rifugiata con loro in cucina. Era fragile, di quella fragilità che proviene dall’essere sconsideratamente coccolata e amata. Aveva delle piccole rughe che si facevano strada dagli angoli delle ciglia fino alle orecchie e poi diradavano fino a scomparire. La madre l’abbracciò.
“Non so come fare, davvero.”
“L’ho capito, cara.”
Beatrice guardò Marica, ne studiò la reazione, ma lei non si mosse, perché continuava a fissare la finestra e a cercare Carlo.
Una macchia di fumo emerse insieme alla zio. Zoppicava, pover’uomo, e la sua pelle era sempre più bianca. I solchi sul volto sembravano canali a secco. Si appoggiò al ripiano di marmo, chiese un posacenere. “Dorme ancora.” disse preoccupato.
“Ora si sveglia.” rispose la madre, lasciando Beatrice e passando al fratello l’oggetto richiesto.
Lo zio prese una sedia, poiché davvero faticava a stare in piedi. Era malato da tempo, nessuno ricordava da quanto, in realtà. Le donne e il vino l’avevano rovinato. Gustò la sua sigaretta fino a quando il mozzicone gli si spense tra le dita annerite, tossì forte, impallidì ancora di più e infine chinò il capo.
“Peggiora a vista d’occhio” constatò la madre “Dovrò parlare con gli infermieri.”
Beatrice depose solo per un istante gli occhi sull’uomo, provando un senso di disgusto che le si dipinse addosso senza che potesse celarlo. “Dunque, cosa devo fare?” si lamentò, volendo nuovamente l’attenzione su di sé.
“Vuoi cambiare marito?” chiese lo zio.
Beatrice aggrottò le sopracciglia, stupefatta.
“Oh no! Non c’è nessun altro uomo nella mia vita!”
“Ci siamo noi.” irruppe Lori, chiedendo se fosse giunto il momento del dolce e dei regali.
“Caro, certo!” disse la madre, e aprì il frigorifero per trarne una torta a tre strati che aveva farcito nella notte. “C’è anche il panettone, di là.”
Tornarono alla tovaglia rossa e alla candela ormai consumata. Lo zio trotterellò dietro di loro, seguito da Marica. Il padre fu destato dalle grida dei nipoti e subito battè le mani allegro. Amava i dolci e, sebbene il medico glieli avesse proibiti, li divorava. In particolare andava alla ricerca delle merendine che la moglie acquistava per Lori ed Edo e ne finiva una confezione in due giorni.
Beatrice divise la torta in fette tutte diverse: le più grandi ai suoi figli, la più misera al padre.
“E i regali?” piagnucolò Edo, assaggiando il dolce come se fosse un rifiuto.
“Guarda un po’ nell’altra stanza!” suggerì il padre, deluso dalla propria razione.
Il bambino scattò come fosse a una gara di velocità e tornò con le braccia piene di pacchi.
“Ce ne sono ancora, Lori aiutami!”
Aprirono i pacchi con frenesia, scartandoli e gettandoli sul divano non appena ne ebbero visto il contenuto: maglioni, felpe, calze e maglie di lana. Solo quando trovarono i giocattoli che avevano richiesto gli si illuminarono i volti e finalmente dimenticarono la questione dell’incompatibilità dei genitori e si rinchiusero nella stanza attigua.
La madre porse al marito un golfino blu, a Beatrice una camicia da notte di seta e a Marica un paio di babbucce bianche. “I regali più belli ai bambini!” disse orgogliosa.
Lo zio osservava quella confusione di nastri brillanti e di carta sul pavimento e si rattristò, pensando, forse, alla vitalità che l’aveva da tempo abbandonato. Prese un’altra sigaretta e la fumò in un minuto.
“E questo è per Marco” aggiunse la madre “Anche se non è qui, anche se sarà l’ultimo dono.”
A quell’affermazione lapidaria, Beatrice ritrovò la voglia di piangere, e si sedette sul divano coprendosi il viso con la coperta che usava sempre il padre quando guardava la televisione.
Andrea scartava il suo unico regalo tenendo tra le mani un bicchiere di bianco. Gli auguri dei suoi compagni di sventura lo avevano demolito e non vedeva l’ora di andarsene. Il bar presso cui festeggiava il Natale sembrava più squallido del solito e la barista bionda era una caricatura che, ancheggiando tra i tavoli e sbattendo le palpebre vistosamente truccate, gli ricordava una delle donne che ai tempi della giovinezza aveva adescato nei locali notturni.
Si sentiva stremato. Conosceva tutti, lì dentro. Avrebbe potuto entrarci a occhi chiusi e sarebbe stato in grado di trovare le persone sedute ai consueti posti, tastandone semplicemente il capo. Lì si sentiva a casa.
Infinite volte aveva discusso con Marica per quel bar: gli rimproverava di preferirlo a lei e da quando aveva scoperto che lo serviva quella gran bella ragazza non gli aveva più rivolto la parola. Andrea provò a capirne le ragioni, ma in quel giorno di festa proprio non ci riusciva, trovando la barista assai meno invitante dell’ex compagna. “Alla salute!” urlò un vecchio, alzando il calice.
“Brindiamo al Natale e alle belle donne!” lo seguì un altro anziano, riponendo le carte da gioco per un istante e sogghignando al passaggio della barista.
Lei sorrideva a tutti, ma lo sguardo migliore era per Andrea. Era un povero ragazzo ridotto a vivere di niente, lo sapeva, perciò gli aveva regalato quel piccolo taccuino che lui ora teneva tra le mani, scrutandolo per capirne il senso. Lì sopra avrebbe potuto registrare le spese e le entrate, in modo da valutare meglio come usare il poco denaro. Lo trovava così affascinante, con quei capelli sempre sugli occhi guardinghi e i maglioni di una taglia più grande! Da quando si era lasciato con quella donna che era entrata una sola volta nel bar con fare accigliato, non pareva più lo stesso e le faceva un po’ pena. Avrebbe voluto che tornasse a scherzare come prima, perché la faceva sentire desiderabile e femmina. Gli ancheggiò accanto per provocarne la reazione, ma lui si limitò a fare quel sorriso scanzonato che si apriva di lato e si richiudeva immediatamente, accennando un grazie.
“Suvvia, Andre, cos’è quella faccia da funerale? Oggi bisogna stare allegri!” dissero in coro due signori alticci.
Andrea finì il vino e chiese subito un altro bicchiere. Voleva ubriacarsi ancora, come se non l’avesse già fatto mille altre volte. Sarebbe tornato a casa senza reggersi in piedi, sostenuto dagli amici che ne condividevano l’appartamento, e si sarebbe addormentato senza pensare. La barista gli venne davanti.
“Vorrei un bacio di auguri.” gli disse ammiccante.
Andrea appoggiò le labbra su quella bocca rossa e gonfia, ma si ritrasse non appena lei la dischiuse. Non aveva voglia di un bacio d’amore e poi era certo che gli puzzasse il fiato. Le cinse la vita con entrambe le braccia e le sussurrò all’orecchio che proprio non ce la faceva. Lei si divincolò offesa e si nascose dietro al bancone.
Cominciava a fare buio. Andrea trasse dalla tasca il cellulare e cercò un possibile messaggio. Era certo che Marica l’avesse dimenticato, che lo odiasse addirittura. Lui, di sicuro, non le avrebbe fatto alcun augurio. La detestava. Gli aveva rovinato la vita, riducendolo a un uomo infame e fallito. Lei e tutte quelle pretese di sincerità e di affidabilità. In fondo, non era stato disonesto nemmeno una volta. Se gli andava di parlare della sua vita precedente lo faceva e lei poteva pure scandalizzarsi, ma che importava? Nessun altro uomo sarebbe stato così sincero! Invece Marica gli rimproverava di mancarle di rispetto, di paragonarla alle donne del passato, di non darle un minimo di serenità, di non farla sentire speciale. Finché si era svelata: un giorno aveva letto sul suo telefono il numero di Michele ed era stato un colpo tremendo. Da allora non poteva fare a meno di intercettare ogni telefonata, la seguiva quando si allontanava da casa, la tormentava con domande assurde, controllava i panni da lavare nel cesto e quelli stesi nel solaio. Era un incubo anche per lui. Immaginava che Marica lo tradisse e quel pensiero si era insinuato nella sua testa come un chiodo e non lo faceva dormire la notte. Non tollerava nemmeno le sue carezze, il suo offrirsi a lui in modo seducente. Gli sembrava che lo facesse per celare una relazione mai chiusa con l’uomo che aveva causato la fine del suo matrimonio. E così la loro intimità si era fatta rara, lei si lamentava e sovente piangeva, Andrea le girava le spalle e si addormentava ebbro di vino. L’inferno era durato troppo anche per uno come lui, abituato a frequentarlo. Un giorno, senza dirle nulla, aveva raccolto i suoi vestiti in una valigia che aveva trovato nel ripostiglio ed era scappato.
L’aria fredda. Il vento pungente. La nebbia che calava. Marica uscì col cappotto di lana e la sciarpa ben annodata al collo, decisa a fare ritorno a casa. Aveva salutato la famiglia, aveva baciato suo padre e augurato agli altri buon proseguimento. La madre aveva sgranato gli occhi e, stupefatta, le aveva chiesto il motivo del suo commiato. “Non mi sento molto bene.” era stata l’esigua risposta.
Camminava inquieta lungo il viale con le luci ancora spente, deserto come solo un viale a Natale può essere. Si teneva le mani sul petto e respirava lentamente. In realtà, non voleva rientrare a casa. Tutto avrebbe sopportato, tranne il silenzio di quelle stanza che, fino a qualche mese prima, aveva condiviso con Andrea. Il pensiero andò nuovamente a lui. Marica prese il telefono dalla borsa, controllò: niente. In fondo, perché avrebbe dovuto mandarle un messaggio o, addirittura, chiamarla? Era fuggito come una lepre dinanzi al pericolo, si era rintanato chissà dove e, di certo, non desiderava farsi rintracciare. Da un balcone vennero alcune voci concitate: persone che erano uscite all’aperto a fumare. Chiacchieravano e ridevano. Marica alzò lo sguardo e li trovò che la studiavano incuiositi. Non era consueto vedere qualcuno aggirarsi da solo in strada il giorno di Natale. Tutti avrebbero dovuto avere un po’ di compagnia e, se non l’avevano, di sicuro era colpa loro.
All’improvviso, la vibrazione del telefono la fece sussultare. Lo trasse fuori dalla borsa, avidamente sollevò la custodia nera e cercò il numero del chiamante.
“Pronto?”
“Mari, sto arrivando.”
“Ma non…”
“Dove sei?”
“Quasi in piazza, papà.”
“Arrivo.”
Lo vide da lontano sulla sua utilitaria grigia, accanto a lui lo zio con la faccia incollata al finestrino. Il padre parcheggiò a un metro da lei, scese lentamente, la raggiunse, la baciò.
“Vieni con me.” le disse “Portiamo a casa lo zio.”
Marica salì in macchina. Una nuvola di fumo veniva dal sedile anteriore, ma non vi badò. Era abituata ad Andrea.
“Tua sorella piange ancora!” esclamò lo zio, con la voce piena di sonno.
Il padre partì, le mani tremolanti, la guida da lumaca.
“Non stavi bene a casa?” domandò.
“Non tanto.”
“Già.”
“Povera Mari!” irruppe di nuovo lo zio “Da sola e triste!” “Sto bene così.” mentì lei.
Presero la strada dei boschi. Si inerpicarono sulle salite lungo cui si innalzavano gli alberi stanchi e sbucarono nella via che conduceva al paese limitrofo.
Non c’era nessuno. La strada si fece via via meno nitida, a causa della nebbia che la bagnava e ne rendeva quasi invisibile il tratto. “La mia piccola Mari.” disse il padre.
Già. Era stato facile essere piccola. Una principessa. Finché l’incantesimo si era spezzato e si era ritrovata in un abisso di scelte da compiere, e le aveva tutte sbagliate.
“Eri la sua cocca!” gridò lo zio, aprendo il finestrino per gettare fuori il mozzicone.
Erano pensieri che ogni tanto la sfioravano e che rigettava puntualmente. Ora, però, le immagini si succedevano le une alle altre senza sosta, l’allietavano, la cullavano, la stordivano.
Era stata una bambina viziata, ma felice. Avrebbe dovuto immaginare che una tale situazione non potesse durare in eterno. La madre chiese il conto non appena rimase incinta di Beatrice. Volle per sé le attenzioni del padre e le pretese per la neonata. Mari venne momentaneamente abbandonata, fino a quando, un giorno, il padre la portò allo zoo e lì, mentre osservavano gli animali e i loro cuccioli, le disse: “Non stare in pena, Mari. Io ti voglio ancora bene. Devi avere solo pazienza, tutto tornerà com’era.”
“E la mamma?”
“La mamma farà ciò che sente.”
La nebbia confuse i suoi ricordi. Marica non rammentava più nulla, oltre quella gita. La sua vita veniva catapultata in un’adolescenza normale, noiosa perfino. E poi il matrimonio con Guido, l’inutile tentativo di avere un figlio, Michele e le sue promesse vuote, il divorzio, e infine Andrea.
“Com’era farlo con tuo marito?” le chiedeva.
“Era diverso.”
“Diverso come?”
“Diverso.”
Andrea ammutoliva e non faceva più domande, ma in lui il germe della gelosia attecchiva e si diramava.
“Beatrice non è forte.” disse il padre “Purtroppo tua madre non l’ha abituata.”
“Penso che sia così.”
“Eppure non sarebbe capace di stare sola. Senza Marco, intendo.” “Eh no.”
L’auto sfiorò un canale, lo zio gridò, Marica disse al padre di fermarsi e di farla guidare.
“Sono ancora in grado di farlo. E’ stato un momento di distrazione.” si oppose lui.
Andrea uscì dal bar per prendere fiato. Tutto quel chiasso lo infastidiva. Sentiva un grande caldo dentro e lo stomaco gli bruciava. Teneva in mano il telefono, come se da un momento all’altro dovesse rispondere. La barista non aveva cessato un minuto di spiarlo e questo lo faceva sorridere. Avere una donna era facile per uno come lui. Bastava che scherzasse come sapeva, che gesticolasse in modo delicato e volgare insieme, il che non era cosa da tutti. Il problema era tenerle le donne. Nessuno gli aveva mai insegnato come si faceva. Suo padre aveva disprezzato la moglie per tutta la vita, finché lei aveva deciso di lasciarlo, morendo in un candido letto d’ospedale a soli quarant’anni. Cosa pretendeva Marica da uno che aveva vissuto un tale dramma? Cosa volevano tutte le altre? Cosa si aspettava quella barista neanche troppo ingenua? Lui non possedeva più nulla oltre se stesso e la sua personalità non era raccomandabile. Voleva stare solo a rimuginare sui suoi guai presenti e futuri. Guardò il telefono: nulla. Non sperava che lei lo cercasse. Non l’aveva fatto mai. Aveva lasciato che se ne andasse senza chiedergliene conto. Sicuramente i suoi sospetti erano fondati: Marica aveva riallacciato i rapporti con Michele. Quell’idea lo faceva impazzire e doveva ricacciarla dentro, perché rischiava di fare qualche cosa di riprorevole. Una notte aveva avuto la tentazione di strangolarla. Lei dormiva, era pallida, aveva le sue cose.
“Mi piacerebbe un figlio.” gli aveva confidato un giorno.
“Da me?”
“Sì.”
“Non dire sciocchezze!”
Marica era rimasta male, lui aveva visto i suoi occhi umidi, prima che si girasse dall’altra parte e si accucciasse nell’angolo opposto del letto. Gli era dispiaciuto, o forse no. Chissà di chi sarebbe stato quel figlio? Non avrebbe mai creduto che fosse suo!
“Andre, rientra, non hai neppure la giacca!” lo chiamò la barista.
“Sto bene qua.” rispose.
La ragazza si avvicinò cauta, gli porse le mani.
“E dai, vieni dentro che facciamo un brindisi tu e io da soli.” “Perché dovremmo?”
La giovane ci rimase male, pur essendo abituata ai toni accesi del bar. Pensava che Andrea avesse bisogno di conforto quanto ne aveva lei, ma di nuovo lui la confondeva. Rientrò col viso affranto e non appena aprì la porta venne accolta da un boato di grida festose.
“Quando arriviamo?” domandò lo zio impaziente, fumando la decima sigaretta.
“Tra poco.” rispose il padre.
Giunsero finalmente davanti al gigantesco edificio che ospitava i malati di vecchiaia e di vita. Le tende della finestra al piano terra si spostarono un poco e dopo qualche istante un ragazzo con il camice bianco venne a prendere lo zio.
“Buon Natale!” augurò allegramente.
Lo zio baciò il padre, lo ringraziò di tutto e con passo incerto seguì l’infermiere.
“Adesso guido io, papà. Manca la visibilità.” disse Marica. “No. Non mi farai sentire anche tu un vecchio rimbambito.”
Il viaggio di ritorno fu in effetti assai rischioso: le colline si ergevano su un letto di nebbia e l’asfalto a tratti scompariva.
Il padre, preso com’era dalla guida, non parlava. La radio, che lo zio aveva acceso poco prima di scendere, era al volume minimo e metteva sonnolenza. A Marica venne un forte mal di testa. Guardò l’orario: le sei di sera.
“Meno male” pensò.
Desiderava soltanto che il Natale finisse, voleva rientrare nella sua vita fatta di lavoro e di amicizie sfiorate, non voleva più avere tanto tempo per pensare ad Andrea. Soprattutto, desiderava allontanarsi dalla casa dell’infanzia, per non subire mai più quello scempio di sentimenti.
Avrebbe chiesto un trasferimento, si sarebbe allontanata per tentare di ricostruire tutto da capo. Guardò suo padre, le sue rughe ormai profonde, le sue mani usurate. Il passato da eroe l’aveva lasciato e il futuro lo attendeva su un letto d’ospedale. Chissà se sua madre le avrebbe chiesto di assisterlo? Forse no. La voleva distante, magari ne era gelosa. Il padre sbagliò una curva, la prese troppo stretta, quasi andarono nel fosso. In quel momento il telefono di Marica vibrò.
Un messaggio. Una vita. Una speranza. Una delusione.
“Papà!”
“Tranquilla, è stato solo un attimo di disattenzione.”
L’auto fu rimessa in carreggiata, pronta a scendere verso la valle.
Ciao, volevo farti gli auguri. Buon Natale. Andre.
Marica tenne in mano il telefono per qualche minuto, leggendo più volte il testo scritto. Suo padre non si era accorto di nulla e guidava con il busto in avanti, gli occhi stretti che fendevano la bruma.
Infine l’aveva spedito. Non era riuscito a controllarsi, probabilmente per colpa del vino. Le mani gli ghiacciavano, ma non sentiva freddo, anzi. Chissà se lei avrebbe risposto. La immaginava assorta nella lettura, indecisa come sempre. Provò a indovinare com’era vestita, se aveva indossato il vestito rosso della festa. Dalll’interno del bar venivano schiamazzi di ilarità, magari qualcuno stava vincendo una partita a briscola. Andrea decise di rientrare.
“Un bicchiere di grappa morbida.” ordinò.
La barista fece in modo di non guardarlo, ancora ferita dall’atteggiamento di poco prima. Gli diede quanto chiedeva e si mise a lavare le stoviglie.
Andrea bevve d’un fiato, la gola gli bruciò un poco, ma resistette. sentì vibrare il telefono, lo prese senza aspettare, lesse la risposta.
Buon Natale anche a te.
Ora sì che gelava. Spilli ardenti che si mescolavano con una sensazione di assideramento. Lo stomaco iniziava a dargli fastidio, conati di vomito emergevano dalle sue viscere. Dovette recarsi al bagno, sudò, imprecò, si attaccò al muro per non cadere.
Un uomo bussò alla porta, gli domandò se avesse bisogno di aiuto.
“No, per Dio!”
Se glielo avessero chiesto, avrebbe scelto di morire lì, con quel tanfo irrespirabile che gli saliva alle narici e gli fuoriusciva dala bocca. Perché mai aveva inoltrato quegli auguri? Cosa si aspettava? Lei era distante, ormai. Niente l’avrebbe commossa. Avrebbe fatto bene ad ammazzarla quando ne aveva avvertito l’istinto, e invece la sua codardia glielo aveva impedito. Dimenticare. Presto. Subito.
Tornò al salone, gli occhi dei presenti addosso. Si era sporcato il maglione, tutti soffocavano risa di scherno. La barista gli andò vicino e gli offrì un fazzoletto bagnato.
“Pulisciti, Andre. E vieni di là con me, che ti faccio sdraiare un po’.”
Il padre e Marica tornarono in casa e trovarono un silenzio profondo. Lori ed Edo giocavano con il loro mini computer, Beatrice leggeva, la madre era andata a letto.
Marica sedette sulla poltrona accanto alla sorella, spiò la copertina del suo libro.
“Come superare le crisi di coppia.”
Beatrice le rivolse uno sguardo bieco, richiuse il volume e sospirò. “Vedi cosa mi tocca leggere? Per colpa di Marco…” “Dov’è ora?”
“A casa. Dice che non vuole venire nemmeno per la cena. Vuole stare da solo, con la sua musica.
“Mi dispiace.”
“Vorrei lasciarlo, ma non me la sento. Lo amo ancora.”
“L’hai detto alla mamma?”
“No.”
“E perché?”
Beatrice abbassò gli occhi gonfi, il naso rosso e la bocca tremante. “Non capirebbe.”
“Che cosa non capirebbe?”
“Che io possa amare un marito simile.”
Il padre prese il giornale del giorno prima, sedette sul divano a fianco dei nipoti, lesse per un attimo e s’addormentò.
“Non è facile chiudere una storia. Ti lascia un vuoto dentro che non puoi ignorare.” disse Marica.
“Pensi a tuo marito o ad Andrea? Oppure a Michele…”
“Non so. Ma sono certa che, se avessi avuto meno coraggio, forse ora sarei più felice.”
Beatrice le porse la mano bianca, le prese la sua.
“Mi stai dicendo di sopportare?”
“Non avrei pensato di dirlo. Ebbene sì, tieniti tuo marito, Bea. Resisti. A volte serve tempo per arrivare al baratro e non è detto che ci si arrivi. Si resta in un limbo di scelte non fatte, ma almeno non si ha il rimorso di quelle compiute.”
Passi lenti arrivarono dalla zona notte. La madre si mostrò con i capelli spettinati e il volto senza trucco.
“Nessuna di voi due ha acceso il forno?” domandò seccata.
Senza aspettare risposta, si recò in cucina e infornò le lasagne.
Lori abbandonò il gioco virtuale per raggiungere la nonna e chiederle qualcosa da mangiare. Edo lo seguì.
La candela sul tavolo venne sostituita da un’altra ancora da consumare, rossa e dorata. Il padre si destò all’improvviso, con uno scatto che fece temere il peggio.
“E’ ancora Natale?” chiese.
“E cosa vuoi che sia?” rispose la moglie dall’altra stanza.
L’uomo prese i piatti, i bicchieri e apparecchiò di nuovo. I suoi gesti lenti e misurati cozzavano con la forza che aveva sempre mostrato di possedere. Era un vecchio malato, ormai, succube di un matrimonio che aveva comunque deciso di mantenere.
Guardandolo, Marica provò un’infinita tenerezza. Sapeva che non aveva mai accettato il suo divorzio, anche se non aveva espresso giudizi. Era stato un duro colpo per lui, abituato alla sua generazione di coppie stabili per dovere. Eppure aveva continuato ad amarla.
“L’amore non concede neppure un istante di distacco.” sussurrò Marica.
“Eh?” domandò Beatrice.
“Niente, Bea. Pensavo ad alta voce.”
“Che questo Natale sia il migliore, che il Signore ci protegga e ci aiuti!” esclamò il padre, accendendo la candela.
“Mamma, mamma, il papà non arriva?” si preoccupò Edo, tirando il maglione a Beatrice.
“Zitto, caro, che la tua mamma è stanca.” intervenne la madre, evitando come di consueto che Beatrice trovasse da sola la forza di rispondere. “Ma perché non arriva?” insistette il bambino.
Lori gli andò accanto e gli sussurrò qualcosa all’orecchio; dovette essere molto convincente, perché Edo fece un sorriso e riprese in mano il videogioco.
In quell’istante suonò il campanello. La madre si mise in posizione di attesa, il padre sollevò appena gli occhi coperti dalle palpebre calanti, Beatrice si mise una mano sul petto.
Marica andò al citofono.“E’ Marco.” disse.
Edo corse tra le braccia di suo padre, che lo sollevò e lo fece ruotare . “Buonasera a tutti e di nuovo Buon Natale!” disse Marco. Andò ad abbracciare Beatrice, fece una carezza a Lori, Non sembrava l’uomo che aveva abbandonato la casa qualche ora prima.
La madre lo osservava incredula, scuotendo la testa in segno di disapprovazione, senza nascondersi. Provava a immaginare ogni sorta di situazione piacevole tale per cui suo genero era rinato, e ne aveva in mente almeno un paio, tuttavia non poteva essere certa che i suoi pensieri rappresentassero la realtà e se ne stava in disparte, finalmente muta.
Fu il padre a rompere il silenzio: “ Siamo contenti che sei tornato!” gridò.
“Grazie.” rispose Marco.
Marica vide che si era rasato la barba e cambiato la camicia, ma non osò conclusioni inopportune che, pensate da lei, potevano essere fuorvianti. Beatrice appariva felice. Evidentemente, le era sufficiente la presenza affettuosa del marito. Marica pensò che non le era mai bastata l’apparenza, che aveva avuto sempre la cattiva abitudine di cercare cose che sarebbe stato meglio ignorare. Si rimproverò tacitamente di essere stata indulgente solo con se stessa. Guardò la sorella, la sua famiglia completa, i suoi figli belli e sereni, e un po’ li invidiò, perché essi rapprensentavano la parte della vita che lei non aveva avuto. Andò al bagno, si specchiò e si vide trascurata, pallida, triste.
Pensò all’ex marito, a Michele, ad Andrea. Pensò a tutto ciò che aveva avuto ma non era stata in grado di trattenere. Forse sarebbe toccato a lei piangere, ma chi l’avrebbe consolata?
“Marica, vieni a tavola, che mangiamo!” la chiamò il padre bussando alla porta.
“Sì, arrivo.”
Si sciacquò il viso, cercò tra i trucchi della madre la matita nera e si fece una riga sugli occhi, uscì e andò a sedersi in mezzo agli altri.

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