La recensione di "Charlie says" di Mary Harron, da oggi nelle sale italiane

Recensione a cura di Mario Turco

Negli ultimi anni in tv e al cinema si sta assistendo ad una specie di revival sulla figura di Charles Manson, il diabolico guru ispiratore della strage di Bel Air, che culminerà a Settembre con “C'era una volta ad Hollywood” di Quentin Tarantino che già dal titolo promette di voler mettere la parola fine a questo malsano revisionismo audiovisivo. Il raggiunto cinquantenario dell'evento che segnò in U.S.A. la fine del sogno dei figli dei fiori ha infatti contribuito all'ampliamento del filone di opere che indagano sulla figura del più famoso criminale della seconda metà del secolo. Un punto di vista molto particolare, alieno dalle violenze orrorifiche e molto attento alle vere esecutrici della mattanza avvenuta nella villa al 10050 Cielo Drive, nella zona nord di Beverly Hills, lo fornisce il film “Charlie says” diretto l'anno scorso da Mary Harron e passato anche alla Mostra di Venezia, in concorso nella sezione Orizzonti. Il film, dopo un precedente rinvio, esce nelle sale italiane dal 22 Agosto per la distribuzione di No.Mad Entertainment“Charlie says” nasce da una precisa volontà come dichiara la regista, già in passato autrice di un film molto simile per tematiche come “Ho sparato a Andy Warhol”, che è quello di fornire l'esame accurato delle psicologie delle tre ragazze che si macchiarono del sangue della gravida Sharon Tate: È confortante pensare alle ragazze di Manson come dei mostri, come diverse, come anomale rispetto alla normale esperienza umana. In realtà, la cosa più disturbante è la loro ordinarietà. Come sono arrivate a commettere dei crimini così terribili queste sane e affabili giovani donne?


La regista si serve ancora una volta della collaborazione della sua sceneggiatrice di fiducia, Guinevere Turner (cresciuta lei stessa in un gruppo religioso che prevedeva in futuro di abitare su Venere!) adattando due libri: “The family” di Ed Sanders e il diario della psicoterapeuta Karlene Faith che seguì il re-integro carcerario delle tre giovani. Il film per mascherare questo approccio semi-documentaristico parte da un assunto narrativo consolidato ma di indubbio impatto: ci racconta la vicenda filtrandola attraverso gli occhi della novizia Leslie, interpretata con credibile smarrimento adolescenziale dalla pingue Hannah Murray. Inizialmente il suo inserimento nella Comune ha una sincera componente anticonformistica: gli insegnamenti di Charles Manson sono nel giusto tracciato della consapevolezza di sé e del rifiuto del senso di colpa che i genitori e un'epoca interi trasmettevano ai figli per tenerli legati a loro. L'interpretazione di Matt Smith (da godere in originale il lavoro dell'attore britannico sul parlato e sulla mimesi così vicine a quelle dell'ergastolano deceduto nel 2017) fornisce le coordinate di un carisma non indotto per indubbio fascino diabolico ma per uno strano miscuglio di sfuggevolezza fisica e ardita ideologia hippy. Le regole imposte alla Comune di donne vengono continuamente ripetute così da diventare formule da anteporre a qualunque pensiero critico. Ad ogni interlocutore che le interroghi sul senso delle loro azioni via via sempre più delittuose le ragazze rispondono esponendo le teorie del loro Maestro. “Charlie pensa”, “Charlie dice” (da qui l'azzeccato titolo del film) sono le nenie con le quali la regista sembra in un certo qual modo assolvere le sue protagoniste, vittime come sono state di una subdola ma non per questo meno violenta (emblematici i riferimenti maschilisti di alcuni passaggi delle assurde teorie di Manson) campagna di lavaggio del cervello. 


Se questa lettura femminista delle atroci vicende convince sul piano della scrittura meno lo fa sul piano visivo. Il film della Harron mostra i limiti di una messa in scena pensata probabilmente per il passaggio televisivo, più attenta al dispiegamento delle tappe di una vera e propria circonvenzione d'incapaci che ad una rilettura in senso squisitamente cinematografico. Non ci sono insomma singole scene in grado di emergere o segnare una significativa deviazione dalla struttura a flashback perseguita fino alla fine. Tranne il finale che immagina un esito diverso ad uno snodo della vita di Leslie: se fosse fuggita dalla factory forse Manson avrebbe perso così tanta fiducia in sé stesso da smettere di credere di essere il Quinto Angelo (gli altri quattro, come noto, erano per lui i Beatles) e si sarebbe potuto evitare quella folle versione dell'Helter Skelter. Ma è uno spunto che arriva fuori tempo massimo sia filmico che storico.

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