La recensione di "Mutter", di Lorenzo De Liberato in scena al Teatro Studio Uno fino al 20 Ottobre

Recensione a cura di Mario Turco

Interno di uno spaccio alimentare. Due giovani, fratello e sorella, giocano teneramente tra loro sotto lo sguardo stanco ma sotto sotto complice di una donna discinta. Lui, grande e grosso, le regala un anello ricavato da un filo di ferro mentre lei, muta, lo ringrazia calorosamente con l'unica forma di comunicazione concessale per esprimere la gioia di un carattere ingenuo: la gestualità calorosa. Fuori infuria la guerra ed è l'ingresso sul palco della cinica madre a ricordarlo e spezzare l'incanto di una quotidianità oramai impossibile da tenere in quelle forme. Comincia con una scena apparentemente poca brechtiana “Mutter”, lo spettacolo di Lorenzo De Liberato che dopo il successo dello scorso maggio nella rassegna “I giorni della comune” torna dal 10 al 20 ottobre al Teatro Studio Uno di Roma. Nella lingua tedesca Mutter significa Madre e già dalla scelta del titolo molto più evocativo nella sua genericità si può capire come l'opera di De Liberato intenda riscrivere liberamente “Madre Courage e i suoi figli” di Bertold Brecht dal quale è tratto. 


Pur riportandone ampi stralci e mantenendone l'ossatura narrativa, Mutter infatti sceglie di liberare l'opera del drammaturgo tedesco dalle forti caratterizzazioni politiche e filosofiche. Il regista teatrale sceglie innanzitutto di dare una sforbiciata ai personaggi per concentrarsi maggiormente su altri donando loro interi segmenti non presenti nell'originale. Così a non comparire mai in scena è, ad esempio, il più grande dei fratelli, il soldato che partito al fronte è un eroe di guerra talmente esaltato dai suoi commilitoni da trucidare perfino i contadini. La volontà di non insistere sulla crudezza della scrittura brechtiana si esplica anche, per contrasto, con la scelta di dare maggior risalto, almeno nella prima parte, al candore di Kattrin, interpretata con efficacia da Irene Vannelli. La scenografia, pur nella ristrettezza del palco del Teatro Studio Uno, è sfruttata in ogni suo centimetro dagli attori che, grazie anche ad un intelligente e pittorica disposizione degli oggetti di scena (il tavolo in verticale, la ricercata profondità di campo), riescono a rendere soprattutto visivamente il dramma di una vita sconvolta dal conflitto che si svolge fuori. Gli accenni alla guerra dei Trent'anni sono infatti appena un paio e perfino il bombardamento si limita ad un sonoro effetto musicale. In un trasposizione così scarna inevitabilmente si fa di necessità virtù e perciò si eliminano i commenti a margine dei personaggi secondari, soprattutto quelli delle truppe, che in Brecht si fanno spesso portavoce delle prese di posizioni più spietate. 


Anche tutte le distinzioni geografiche dei personaggi, come ad esempio le diverse nazionalità dei tre figli, non vengono deliberatamente trasposte in questa versione quasi a costringere lo spettatore a concentrarsi esclusivamente su ciò che avviene in scena e sui rapporti che i pochi protagonisti instaurano tra loro. Mutter è fino in fondo un occhio di bue centrato su Annie Ferling a cui dona i suoi espressivi occhi di donna intrepida e segnata dalle asprezze Giordana Morandini. Anche se il personaggio perde gran parte del suo pessimismo più disperato rimane pur sempre una donna segnata fatalmente dalla tragedia più nera. La perdita di tutti e tre i figli è un colpo impossibile da digerire forse soprattutto in questa versione apolitica dove abbiamo avuto purtroppo l’ardire di affezionarci ai personaggi presenti in scena. Anche se Anne Fierling in Mutter non è il degenere prodotto del capitalismo, pronto ad aggredire le sue vittime tra gli strati più poveri della popolazione, il senso di colpa per la sua condotta spregiudicata permane ed investe lo spettatore soprattutto nell’asciutto finale dove il corpo morto di Kattrin giace sul tavolo tenuto per mano dalla madre. Lo spettacolo di De Liberato insomma si libera dalle tenaglie dall’ideologia marxista ma sembra dirci che gli effetti del liberismo, in un presente acritico come il nostro, continuano a persistere senza che nemmeno più riusciamo a comprenderli.

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