La recensione in anteprima di "Un giorno di pioggia a New York", il nuovo film di Woody Allen al cinema dal 28 novembre


Recensione a cura di Mario Turco

In merito a "Un giorno di pioggia a New York" di Woody Allen, in uscita nelle sale italiane dal 28 Novembre distribuito da Lucky Red, leggerete la solita sequela di invettive riassumibile in un'unica macro-accusa. Che sarebbe più o meno questa: la cadenza annuale con cui il regista statunitense si ostina a far uscire le sue opere ne dissipa la fertile inventiva disperdendola in rivoli esilissimi. Il discorso in realtà è meno semplice di quello che è diventato un pigro modo di visionare le opere del maggiore umorista vivente. "Un giorno di pioggia a New York" mostra come ad essere friabili siano questi discorsi critici, basati su meri dati anagrafici-biografici da cui si vuol principalmente far desumere la vetustà e il ripiegamento dell'occhio allenniano. Il corpus delle sue opere è un monolite solo apparentemente contrario alla rifrazione dell'attualità ma che in realtà ne viene continuamente e intelligentemente attraversato pur mantenendo il solido nucleo di base. Anche in quest'ultimo film Allen sembra immergere la sua penna nel ginepraio sentimentale in cui si diverte a immaginare i suoi borghesissimi protagonisti. Il giovane Gatsby Welles, interpretato da un Timothèe Chalament che sembra nato per essere il prossimo pupillo del regista, è diviso tra la passione per la bella ed ingenua Ashleigh e la conturbante Chan. Un altro triangolo amoroso a prima vista, di nuovo tra due figure agli antipodi ed entrambe ugualmente ammalianti, per di più ambientato nella New York a cui periodicamente tornare per godere della sua pioggia e dei suoi fumi di scarico. In questa quarantennale perpetuazione del canovaccio Allen col passare degli anni ha voluto costruire una specie di composizione musicale in cui inserire ad ogni film variazioni minime che alzino od abbassino di un solo tono il tema principale. O se si vuole restare al cinema i film di Allen debbono essere oramai analizzati come fossero un genero autonomo. 


In questo senso "Un giorno di pioggia a New York" funziona sia come episodio singolo che soprattutto all'interno del filone in cui è inserito. Impossibile in tal senso non vedere nella depressione artistica di Rolland Pollard il cantore del carsico pessimismo dell'autore ebreo o nella spregiudicatezza latina di Francisco Vega il modello maschile a cui il piccoletto ebreo con gli occhiali scherzosamente ha finto di voler aspirare nel corso di tutta la sua carriera. In questo ri-attraversamento autarchico dei suoi topoi cinematografici, "Un giorno di pioggia a New York" riesce a scrollarsi di dosso la pesantezza della lunga camminata e ad ottenere una freschezza battutistica che si esplica in dialoghi meno ingessati rispetto alla recente produzione. L'aver rinunciato alla componente auto-rappresentativa a favore di una specie di delega giovanilistica rappresentata da protagonisti mai forse così gioiosamente spettinati di fronte alla vita (e per una volta l'unica donna anziana del film saprà riscattare la sua meschinità di vedute con un colpo di scena memorabile e, splendido eccesso, dal risvolto tipicamente alleniano), porta un brio che rende partecipe anche lo spettatore a cui si demanda similare immedesimazione. 


Come forse non mai, "Un giorno di pioggia a New York" assume i toni della favola (moderna): tra interni di abbacinante bellezza, bohemienne giocatori di poker, attori fedifraghi e la magica visione di Central Park filtrata dalla fotografia di Vittorio Storaro (che continua gli sperimentalismi sui cambiamenti di luce naturale all'interno della stessa inquadratura già iniziati con "La ruota della meraviglie - Whonder Wheel") veniamo catapultati all'interno del macrocosmo culturale alleniano. Già, perché a partire dalla scelta del nome del protagonista che nel suo doppio omaggio non finge nemmeno di voler filtrare i riferimenti, il film si smarrisce volutamente tra gite ai musei, salotti letterari e continue chiacchiere piene di sofisticherie. L'angst adolescenziale dei personaggi si tinge così di reminiscenze e colori altrui e così facendo Allen rende bene l'insicurezza di un'età dove i primi dolori sembrano così definitivi da doversi poggiare a quelli di esempi illustri per non soccombervi. Se si sta al patto finzionale screziato di magia che richiede, "Un giorno di pioggia a New York" rappresenta uno dei migliori lavori del regista di "Manhattan" e che lo cristallizza ancora di più nell'empireo dei grandi del Novecento.

LIBRI & CULTURA CONSIGLIA...