La recensione di "Dead Man", di Jim Jarmusch distribuito da Movies Inspired dal 6 Agosto nei cinema

Recensione a cura di Mario Turco

- "Hai ucciso chi ti ha ucciso?". Lo stile di Dead Man, l'intero cinema di Jim Jarmusch e, osiamo scrivere, del postmodernismo tutto, sono racchiusi qui, nella domanda che Nessuno pone a William Blake quando egli racconta la sua scapestrata fuga da Machine. In questa breve sequenza, una delle tante in cui si squaderna il film scritto e diretto dal regista di Akron nel 1995, trovano significativo compendio alcune delle caratteristiche più marcate dell'ultima (possibile?) corrente artistica del Novecento: la frammentarietà della narrazione, la destrutturazione amaramente ilare del genere principe della cinematografia statunitense (il western, of course) e la collocazione dei personaggi in posizioni di decentramento e dislocazione rispetto alla stessa fabula. Il capolavoro della filmografia di Jarmusch presentato con poco successo critico in concorso al 48º Festival di Cannes uscirà nuovamente al cinema il 6 agosto 2020 nella sua versione restaurata distribuito da Movies Inspired ed è quindi l'occasione perfetta per fare i conti con un'opera che cresce nella ricezione pubblica come il suo autore continua a fare nella cinematografia statunitense.


Dead Man rappresenta ancora oggi la lucidissima e finanche programmatica presa di coscienza dell'impossibilità dell'ultimo decennio del millennio di fare cinema non solo alla maniera dei nonni e dei padri ma perfino dei fratelli europei. La reincarnazione (Jarmusch si fa beffe da subito di un più probabile caso di omonimia) del poeta e pittore inglese William Blake negli Stati Uniti avrebbe le sembianze di un patetico contabile, defenestrato dal nuovo lavoro nella città di Machine prima ancora di averlo cominciato. Il precedente vaticinio del fuochista, staccatosi dalla caldaia proprio per avvisarlo di “non credere alle promesse scritte su carta” era già per sua natura destinato a non essere preso sul serio: nell'epoca dei treni a vapore l'unico Mito riconosciuto è quello della caccia ai bisonti. Gli otto minuti che fanno da locomotiva ai titoli di testa sono la funebre anticamera, nemmeno tanto velata, della vicenda che segnerà l'uomo morto che non sapeva di esserlo. Nell'accecante bianco e nero splendidamente reso da Robby Müller, usuale direttore della fotografia di Wim Wenders e dello stesso Jarmusch, privo dei contrasti tanto cari alla lunga tradizione prima espressionista, poi noir ed infine new-hollywoodiana (si pensi ai precedenti di “Toro Scatenato” e “Schindler's list”), il viaggio zen del giovane uomo verso la consapevolezza dell'irriducibile finitezza dell'uomo nell'infinito universo avviene attraverso l'incontro con l'Altro rappresentato dal pellerossa Xebeche, “colui che parla ad alta voce senza dire nulla”. 


Blake, interpretato con sensibilità da un Johnny Depp legato particolarmente al film perché solleticava le sue origini indiane e il suo orgoglio Cherokee, si trova nolentemente a dover ricusare il mondo industriale che l'aveva abbandonato al suo destino per un semplice equivoco temporale. Per togliersi gli occhiali morali dello “stupido uomo bianco” che è dovrà affrontare una serie di prove che da un lato gli faranno prender coscienza del male insito nella società da cui è stato costretto a scappare, dall'altro lo precipiteranno in similari abissi di violenza. Il suo rapporto con le armi da fuoco è in questo senso lapalissiano: se nel primo omicidio spara per pura reazione mancando perfino il bersaglio, nell'ultimo mostra un sangue freddo ed una velocità d'esecuzione da navigato pistolero. Nel mondo di “Dead Man” convivono sia gli stralunati chiacchiericci sulla lenta progressione dal giorno alla notte – metonimia del peccato: ci si precipita lentamente o ci si cade improvvisamente? - sia una sincopata danza macabra ritmata dall'acido fingerpicking di Neil Young che con la sua elettrica sei corde acuisce gli occasionali stridii orrorifici. L'intatto fascino del film sta proprio in questa unione di apparenti contrari, in quella che formalmente può sembrare una giustapposizione casuale di stilemi alti e altri ma che al suo interno racchiude l'essenza stessa della postmoderna poesia cinematografica: accatastare immagini tra loro mute e costringerle al dialogo con lo spettatore. Che da destinatario/uomo morto diventa vivo ricettore.

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