La recensione di "Tutto brucia", di Motus al Teatro India di Roma fino al 23 settembre

Recensione a cura di Mario Turco

Tutto brucia. Ilio è un troiaio di macerie fumanti, e cenere e lapilli la cingono come le mura che sono state appena abbattute. Sono gli abbracci di morte di una guerra lunga dieci anni che stringono sul proprio luttuoso seno le persone che meno l'hanno combattuta: le donne. "Tutto brucia", in scena al Teatro India di Roma fino al 23 Settembre, è la rivisitazione personalissima che la celebre compagnia d'avanguardia Motus porta sui palchi d'Italia de "Le troiane", di Euripide. 


Ci si aspetta una scena d'apertura come quella immaginata ad inizio articolo ed invece il fondale è dominato da un drappo viola che chiude una (finta) spianata di sabbia. "Tutto brucia" è un neon che campeggia a bassa intensità sul tetto, quasi inoffensivo nella sua tenuità, come se questo sintagma che in Jean-Paul Sartre avvertiva della politicità del fuoco - di qualunque fuoco, potremmo dire - qui fosse soltanto un riferimento contestuale. Dove siamo? Chi è la ragazza piena di tatuaggi e con la pancia alcolica allegramente strizzata fuori che imbraccia una chitarra elettrica e strimpella pochi accordi strazianti ed altamente struggenti? Cosa vogliono dire i versi che canta quest'aeda punk e quale figura sta emergendo, rantolando oscuramente, tra le spire ancor più buie del tendaggio? La ricerca drammaturgica dello spettacolo firmata da Ilenia Caleo, in questo incipit davvero straniante, sembra fatta apposta per togliere qualsiasi riferimento percettivo a chi conosce il testo della tragedia di Euripide. La presenza dello straordinario corpo performativo di Silvia Calderoni - che con i due componenti dei Motus collabora da 15 anni abbattendo indefessamente qualunque confine identitario e di genere - che s'aggira confuso ed animalesco come un cucciolo selvaggio (d'uomo?) contribuisce ad aumentare l'inquietudine di questa difficoltà di decifrazione. Il canto di R.Y.F., pseudonimo di Francesca Morello, è l'unico appiglio razionale che poco a poco traccia chiari riferimenti delle vicende mitologiche della caduta di Troia e delle sue abitanti: Ecuba e Cassandra si esprimono attraverso le rivisitazioni compiute da J. P. Sartre, Judith Butler, Ernesto De Martino, Edoardo Viveiros de Castro, NoViolet Bulawayo e Donna Haraway. 


Il racconto degli stupri subiti dai vincitori greci e perfino dai loro dèi - forse la legittimazione più squallida che il patriarcato abbia mai filosoficamente tentato - trova sul palco grande resa visiva nella danza disarticolata della giovane danzatrice Stefania Tansini che termina con la potente vista dei suoi slip e delle sue cosce insanguinate. L'eterno scandalo della guerra, quel tempo sospeso dove tutto è permesso o, per dirla proprio con le parole dello spettacolo, tutto brucia, trova nell'iper-contemporanea rivisitazione della compagnia Motus uno dei suoi campanelli d'allarme più stranianti. Perché, pur cedendo qualcosa dal punto di vista del linguaggio all'installazione e alle sue barre di luce (il rifiuto minimalista di servirsi di schermi digitali e proiezioni avrebbe tranquillamente potuto allargarsi a questi neon che in qualunque arte hanno oramai oltrepassato il limite di saturazione), il dramma delle Troiane continua a perpetuarsi anche adesso in terre neanche tanto lontane da quelle del Mito. Il pianto di Ecuba sembra venire dai notiziari di questi giorni: “Si consuma in un vasto incendio la città di cui ero regina. Era bella e gloriosa, e regnava sui popoli, dispensando giustizia e abbondanza. O Dei! Tutto è cenere ormai. Ma quali Dei invocare? Anche prima li invocavo, e non udirono. Allora corriamo, su, gettiamoci nel rogo! Sarà molto meglio morire gettandoci tra le fiamme che distruggono la patria!”

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