La recensione de "Kobane calling on stage", adattato e diretto da Nicola Zavagli dal fumetto di Zerocalcare ed in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 20 Novembre

Recensione a cura di Mario Turco

La connessione tra fumetto e teatro è molto più profonda di quanto si possa credere ad una prima riflessione concettuale. Non soltanto per il facile gioco linguistico sulle “tavole” dei due media che, mutatis mutandis, sono lo strato materiale e metaforico su cui si costruiscono le rispettive narrazioni ma soprattutto per certe comunanze di linguaggio ancora poco esplorate dagli stessi autori e dalla critica. Dopo l’avvenuta nobilitazione delle graphic novel – orpello terminologico senza il quale sembra che le raccolte di strips non siano ammesse ai concorsi letterari! – il passo successivo è stato e sarà sempre di più finalmente l’ibridazione con le altre e alte forme artistiche. Così ecco che “Kobane calling on stage”, adattato e diretto da Nicola Zavagli ed in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 20 Novembre, porta in scena proprio l’opera di Zerocalcare del 2016 che ha segnalato anche al pubblico (anche se, spiace dirlo, dovremmo anche aggiungere molta critica generalista) meno attento che il fumetto commerciale/popolare non ha paura di sporcarsi le mani con l’impegno sociale e l’attualità politica.


Prodotto da Lucca Comics & Games / Lucca Crea e Teatri D’Imbarco in collaborazione con BAO Publishing – la casa editrice che nel 2020 ha pubblicato la ri-edizione “Kobane calling oggi” con l’aggiunta in appendice di “Macelli”, storia uscita a luglio 2019 per Internazionale in cui veniva raccontata la vita e la missione di Lorenzo Orsetti, il volontario fiorentino morto in Siria nel marzo 2019 mentre combatteva a fianco delle milizie curde ed al quale lo spettacolo è dedicato – “Kobane calling on stage” aveva come compito principale quello di dare coerenza narrativa all’originale reportage dell’autore romano nella città del Kurdistan siriano passata agli onori della cronaca per aver sconfitto le milizie dell’Isis. La scelta del regista è innanzitutto quella di accogliere e perfino allargare la complessità del fumetto originale, sia dal punto di vista principale con la ramificazione del racconto della prima persona zerocalcariana in tre personaggi (lo stesso fumettista e due suoi amici che gli fanno da interlocutori o dicono perfino le stesse battute che sulla carta sono attribuibili al rebibbiano Michele Rech) sia in maniera secondaria con la riproposizione di tutte le scene dove sono presenti i vari guerriglieri e quelle dove appaiono le figure chiave dei suoi “disegnetti” come Lady Cocca e l’iconico Armadillo. Vengono perfino ripresi con coraggio tutti gli oramai famosi (e spesso snaturati) riferimenti pop, spogliati ovviamente quasi sempre della loro componente scenografica, davvero impossibile da portare con cura in una riproposizione in tempo reale. 


Ecco allora che da questo punto di vista l’impatto con “Kobane calling on stage” è quasi straniante: la prima parte della pièce incentrata sull’arrivo di Zerocalcare a Mehser, il villaggio sul confine turco ad appena 200 metri (raggiungibile con una pisciata “manco bona, discreta”) da Kobane, sembra davvero una copia 1:1 dell’opera originale. Le battute infatti sono recitate integralmente, anche quelle dei balloon più piccoli o quelle che hanno senso solo sulla carta stampata (il “pippone” geopolitico cartaceo contrassegnato in grigio e da skippare come fosse un pre-roll di Youtube). Era quasi naturale che il teatro riuscisse a dare forma concreta agli estremi dello spettro emozionale di “Kobane calling” e difatti l’adattamento di Nicola Zavagli, col fondamentale aiuto dei bravi 13 giovani attori della compagnia, eccelle nelle scene drammatiche ed in quelle comiche. Si ride molto, a testimonanzia del valore di scrittura di Zerocalcare che emerge immutato anche quando viene recitato da professionisti (un po’ meno in una serie animata, ma questo è un parere personale del recensore) e si riflette ancor di più nella seconda parte, che è quella che finalmente gioca maggiormente coi codici e le differenze transmediali. L’irruzione finale del peshmerga curdo che arringa la platea percorrendone i corridoi e chiedendo al pubblico occidentale di non dimenticare il tributo di sangue che il suo popolo ha versato per una guerra salutata con favore dagli schermi dei propri computer (e in questo sacro furore moralista si perdona pure la tirata populista di Rech: “Io non voglio negà le complessità. Sennò facevo il giornalista”) è l’esemplificazione più chiara e diretta di quell’on stage che campeggia sin dal titolo. Arriva tardi, come il riconoscimento del fumetto nelle arti maggiori ma adesso non si può che partire da qui.

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