La recensione di "Monte Verità", di Stefan Jäger in uscita nelle sale italiane dal 29 Giugno distribuito da Dracka

Recensione a cura di Mario Turco

All’interno del consesso sociale comunemente chiamato nazione l’individuo, grazie ad un patto sottoscritto tacitamente alla sua nascita e confermato dalla prima iscrizione all’anagrafe, cede porzioni della propria libertà affinché possa essergli garantito l’obiettivo supremo, ovvero il bene comune. La quota di restrizioni a cui egli deve sottostare si amplia o si restringe a causa della classe in cui nasce ma, lasciando da parte letture marxiste e post-marxiste, anche chi è privilegiato per censo compie ogni giorno rinunce in nome del prestigio. E quando i lacciuoli delle convenzioni s’ispessiscono fino a diventare nodi scorsoi che nemmeno Alessandro Magno saprebbe sciogliere con la sua spada, per questi addolorati privilegiati non resta che farsi tentare dalla fuga in una comunità che predica ritorno alla natura, balli sciamanici attorno al fuoco ed immancabile nudismo. Sembra una parabola moralistica ed invece è la credibilissima storia di verosimiglianza che sta dietro al gran bel film “Monte Verità”, di Stefan Jäger in uscita il 29 Giugno grazie alla distribuzione di Draka. 


Dopo essere stato presentato al 74° Festival di Locarno e al TFI Torino Film Industry in occasione del 40° TFF, il lungometraggio cessa il lungo oblio distributivo arrivando finalmente nelle sale italiane ed è particolarmente consigliato per chi volesse conoscere la storia di questa piccola comune svizzera che si situò nella cima del monte omonimo portando le proprie idee libertarie dal forte sapore utopistico. Di fronte ad un’esperienza che fa parte del patrimonio culturale elvetico – basta googlarlo per vedere anche solo sulle pagine italiane quante numerose siano le testimonianze a tal proposito - Stefan Jäger scosta da subito la mera ricostruzione storica provando a sondare alcune delle inevase possibilità che la vera storia concede ancora oggi: chi scattò all’epoca le fotografie degli artisti che si riunirono al Monte Verità per provare un modello di collettività che esulasse dai rigidi vincoli di inizio Novecento? La risposta che il film fornisce non è, almeno all’inizio, particolarmente sorprendente dato che la macchina da presa segue le anguste vicende familiari della protagonista Hanna Leitner (Maresi Riegner), giovane donna sottomessa al marito fotografo d’alto lignaggio e, in un certo qual modo, schiava anche dell’amore che prova in maniera fin troppo incondizionata per le sue due figlie. La ragazza soffre di una specie d’asma nervosa – ed il primo merito del film è di lasciare ampia discrezionalità interpretativa allo spettatore sulle cause reali di questa malattia – che nessun dottore riesce a curare. A questo punto la coppia sceglie abbastanza improvvidamente di affidarsi al consiglio dell’affascinante Otto Gross lasciando che Hanna provi un periodo di degenza proprio a Monte Verità, a contatto diretto con la natura ed il gruppo di persone che abitano in quella bucolica radura. 


Più che un biopic su quell’antesignana esperienza hippie, richiamata da titoli di coda che crediamo siano in realtà stati imposti dal produttore, Monte Verità preferisce affrontare la vicenda da questo punto di vista laterale mostrando, secondo un noto meccanismo narrativo, l’ingresso di una novizia nel gruppo di spiriti liberi per meglio empatizzare con quello sguardo “vergine” ed ancora ingabbiato nella crisi borghese del proprio matrimonio. Lo scandalo di precetti come “La nudità è una cosa salutare” (anche se il film pecca di eccessivo pudore da questo punto di vista, mostrando pochissimo) o di disposizioni mediche controintuitive dal punto di vista dell’ammalato comune, come il fatto che sia la stessa montagna ad essere “una clinica a cielo aperto”, sono suggestioni di realismo ben inserite all’interno di quello che è il cuore della vicenda, ovvero la speculazione finzionale su Hanna Leitner. Così abbagliato dalla protagonista e dagli splendidi scenari montani, il regista si permette addirittura di sorvolare sugli ospiti illustri della piccola ed anarcoide comunità svizzera regalando loro solo un paio di scene madri. Herman Hesse ed Isidora Duncan sono fantasmi del passato che fanno ciò che ci aspettiamo (il primo declama nudo la trama del Siddharta, la seconda balla vorticosamente) ma Monte Verità ed il lungometraggio che lo racconta, come nelle utopie più brucianti ed autentiche, è stata ed è molto più del contributo dei singoli. In questo caso un film pieno di grazia che, oltre alla retorica prevedibile per uno spettatore scafato, regala una regia particolarmente ispirata, capace di smarrirsi con meraviglia sempre stupita nella rigogliosa natura che accetta dentro di sé chiunque, dalla suffragetta Ida alla suicidiaria Lotte, la cui malinconia accompagnerà a lungo lo spettatore anche dopo i titoli di coda.

LIBRI & CULTURA CONSIGLIA...