La recensione di "Revival", di Dario Germani nelle sale dal 28 novembre grazie alla distribuzione di Enjoy Movie

Recensione a cura di Mario Turco

Confessiamo che capita spesso, durante magari le nostre peregrinazioni festivaliere, di ritagliarci uno spazio per osservare il cinema italiano da una posizione laterale, cioè guardando quei prodotti che non hanno nemmeno la sicurezza di una distribuzione e difatti sono “soltanto” lo sfogo artistico di qualche isolato cineasta. Un cinema “fuori norma”, per usare la fortuna espressione del compianto Adriano Aprà, ostinatamente irregolare ma quasi sempre interessante per segnalare temporalmente vicinanze e distanze rispetto a quello del fratello più commercialmente codificato. È quindi con grande curiosità che ci siamo approcciati a “Revival”, di Dario Germani nelle sale dal 28 novembre grazie alla distribuzione di Enjoy Movie. 


Strano oggetto cinematografico che più che un “ufo” rappresenta un insospettabile “wannabe mainstream”, l’ultimo lungometraggio del prolifico ed eclettico Germani (in un’intervista a Nocturno persino il direttore Davide Pulici durante la telefonata apprende in diretta del suo coinvolgimento in svariati progetti!) rappresenta nel suo piccolo un caso esemplare dei limiti e dei pregi che un prodotto così volutamente liminare può avere. Revival comincia senza prologhi o presentazioni, gettandoci subito nel dinner in cui i due criminali Richard (Louis Mandylor, che recita ) e Grant (Yonv Joseph) cercano di recuperare le forze dopo la rapina andata a male di cui si sono resi protagonisti. Tra discussione tarantiniane sul caffè e la tensione montante sulla mano insanguinata di Richard, i due dopo aver scoperto di essere stati catapultati dentro i notiziari televisivi fuggono dalla tavola calda alla ricerca di un posto più tranquillo in cui far raffreddare le acque mediatiche. Così nascondono il bottino seppendendolo dentro un bosco – ma la regia sorvola visivamente su una scena che sarebbe stato invece giusto mostrare – per, infine, accettare il passaggio in auto di un fin troppo benevolo medico di campagna (un Michael Parè che dalla sua prima apparizione col suo carisma si fa fin troppo predominante). Qui Revival compie la sua definitiva sterzata thriller, quando il dottor Martin narcotizza i suoi due ospiti per sottometterli alla mercé di esperimenti che provano a superare il confine tra la vita e la morte rendendolo guadabile alle povere vittime di un marito ancora disperatamente alla ricerca della moglie defunta… 


Dario Germani in questo film, scritto con sicumera e piattezza da Justin DiSandro, prova a rendere cerebralmente affascinante il sempiterno tema dell’indagine umana in uno dei pochi regni ancora preclusi ai bipedi razionali: il post-mortem. Rinunciando alla dimensione gore che viene comunque volutamente evocata dallo scantinato in pietra in cui sono rinchiusi i due protagonisti, il regista italiano intervalla i non precisissimi esperimenti del mad doctor – la generica “droga” blu che riporta i malcapitati morti dall’oltretomba; le visioni/incubi comuni a persone che si sono conosciute soltanto dentro quel bugigattolo; le registrazioni di Michael che ci informano soltanto della storia con la moglie morta e non degli insuccessi e dei rifiuti accademici – con una progressione alquanto meccanica delle escursioni nell’altro mondo del ricettivo Richard. I suoi dialoghi distopici con l’amata ex-compagna Alice (Violetta Jackson), all’interno di un sogno/incubo coraggiosamente fatto crollare in un digitale povero ma evocativo, vogliono essere la summa di una riflessione metafisica che flirta sia col dolore di un marito affranto sia con quello di un compagno manchevole. Il problema principale di Revival sta però in una penuria di budget generale che annacqua i suoi spunti in una serie di riflessioni viste e riviste – che le belle musiche di Sergio Cammariere invece di accompagnare sembrano smorzare -, ulteriormente gravate da un ritmo così compassato e smorto che è lontano sia dalla distopia verbale a cui aspirano sia alle derive horror che vorrebbero evocare. E se la risoluzione della vicenda gioca con troppo facilità nell'indefinitezza , questa scelta qui appare il corollario di uno script confuso e di un film tirato via che ha voluto fare leva solo sulle performance dei suoi attori e di una suggestione mortifera più che mortuaria.

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