La recensione del film "Orecchie", di Alessandro Aronadio

Recensione a cura di Mario Turco

Amazon Prime Video conferma tra le piattaforme di streaming mainstream la propria vocazione cinefila portando nel suo catalogo “Orecchie”, lungometraggio del 2016 diretto e sceneggiato da Alessandro Aronadio. Prodotto da Costanza Coldagelli per Matrioska, in collaborazione con Roma Lazio Film Commission, Frame by Frame, Rec e Timeline, il film fu uno dei quattro progetti internazionali sostenuti e prodotti da Biennale College in quell'anno ottenendo un ottimo riscontro di critica e pubblico nel suo passaggio al Lido. Ed il transito sui server del colosso di Jeff Bezos conferma a distanza di anni quanto di buono ci fosse in un film che, a differenza di altri kolossal ospitati negli stessi database, ha usufruito di un budget di soli 150000 euro. Girato in un bianco e nero chiaramente debitore di Jarmusch e soprattutto del primo Kevin Smith, con un rapporto d'aspetto che varia nel corso del suo svolgimento da un formato quadrato 1:1 a un moderno 1,85:1, “Orecchie” è una commedia stralunata che segue le vicende del suo protagonista senza nome – interpretato da un eccezionale Daniele Parisi – che improvvisamente una mattina si sveglia con un fischio alle orecchie. 


Professore di filosofia precario sia nella professione – fa il supplente “anche quest'anno” - e nella vita – mantiene la relazione con Alice rifiutando la convivenza -, passa la giornata a cercare di capire il motivo della sua sopraggiunta acufene. La sua routine quotidiana è rotta inoltre da una strana convocazione al funerale del fantomatico amico Luigi, che lui non sa chi sia e di cui cerca di rintracciare l'identità chiedendo a parenti ed amici in una stramba odissea tra posti molto iconici di Roma. “Orecchie” nella sua apparente semplicità di bizzarria ridanciana con alcune sortite nel non-sense puro (la divertente parentesi del gastroenterologo interpretato da Massimo Wertmüller) si trasforma presto in un moralistico apologo sulla necessità di scendere dal proprio piedistallo morale ed accettare l'inesorabile stupidità del mondo. “Cosa c’è di più bello che pensare cose stupide senza rendersene conto? Non è forse questo il privilegio della gioventù?” - dice ad un certo punto al semi-catatonico protagonista la signora Marinetti cominciando ad incrinare il suo sacrosanto ma sterile mondo di valori imperniato sul primato della ragione. Proprio attraverso una serie di scene articolate in quadretti che hanno il merito di legarsi tra loro evitando la deriva episodica, il regista palermitano sembra fare della sua opera una sorta di seduta terapeutica (non a caso è laureato in Psicologia) che l'aiuti ad accettare l'inspiegabile irrazionalità della società: “La follia è la nuova normalità, siamo tutti pazzi agli occhi degli altri” - riconosce nel monologo finale quello che appare un evidente alter-ego cinematografico. D'altra parte “Orecchie” fa del ronzio alle orecchie del suo protagonista il sintomo psicosomatico del fastidio provocato dal continuo chiacchiericcio della società che lo circonda, sia a livello micro (la madre vanesia) che a livello macro (l'otorinolaringoiatra saccente). Per dirla alla Sartre, sembrerebbe quindi che “l'inferno sono gli altri”. In realtà il percorso esperito dal supplente di filosofia gli fa cambiare nel corso di una singola giornata, come nella migliore tradizione delle letteratura dell'assurdo, il suo punto di vista sulle miserie altrui. Ci si può in questo senso rifare proprio al filosofo francese autore della pièce “A porte chiuse” da cui è tratta la celebre massima sopraccitata che chiarì in un'intervista successiva il senso di una frase spesso citata a sproposito: “Ho voluto dire 'l’inferno sono gli altri'. Ma 'l’inferno sono gli altri' è stato sempre frainteso. Si è creduto che io volessi dire che i nostri rapporti con gli altri sono sempre avvelenati, che si tratta sempre di rapporti infernali.


Invece è tutt’altro che voglio dire. Voglio dire che se i rapporti con gli altri sono contorti, viziati, allora l’altro non può che essere l’inferno. Perché?

Perché, in fondo, gli altri sono ciò che vi è di più importante in noi stessi, per la nostra propria conoscenza di noi stessi”. Il protagonista di “Orecchie” infatti, in un finale che ha però la grande pecca di esondare nella psicoBanalisi (per citare il bel neologismo di Maurizio Crozza in merito alla sua caricatura di Massimo Recalcati), si rende conto dell'urgenza di accettare il diverso, anche se questi si presenta con un improbabile cappellino con le orecchie lunghe. In un film che fa della dicotomia estetica – molto suggestiva la fotografia di Francesco Di Giacomo - la sua principale ragion d'essere si può essere d'accordo col Sam Fuller de “Lo stato delle cose”, di Wim Wenders: “La realtà è a colori ma il bianco e nero è più realistico”. Ed anche più inclusivo, per fortuna.

LIBRI & CULTURA CONSIGLIA...