La recensione del film "E' stata la mano di Dio", di Paolo Sorrentino nelle sale dal 24 Novembre

Recensione a cura di Mario Turco

C'è un momento preciso in cui, se vogliamo essere figurativi, il cinema di Paolo Sorrentino in “È stata la mano di Dio”, nelle sale italiane dal 24 Novembre per poi essere distribuito su Netflix dal 15 Dicembre, crolla inesorabilmente rivelando la corrosione di architravi metalliche costruite su un'impalcatura narrativa già vecchia, per di più riciclata alla bella e meglio per questo lavoro abusivo fatto in fretta e furia nella villetta (napoletana) dei ricordi personali. Ne siamo travolti al terzo nudo di Luisa Ranieri, che interpreta la procace e psicolabile zia Patrizia, in cui la fantasia dell'attrazione verso la voluttuosa parente rivela la sua natura maccheronica, perdendo la feconda aura pruriginosa dell'inizio a favore di un voyeurismo spiccio, privato di qualunque complicazione etica o financo caratteriale. 


In questo ultimo film, Sorrentino, gratificato troppo generosamente del Leone d'Argento alla 78ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, ad appena 50 anni gira un personale amarcord in cui le esibite ossessioni, – Fellini, Napoli, il barocchismo registico, i personaggi grotteschi – non irregimentate in una sceneggiatura finzionale, mostrano la loro vaporosa inconsistenza. Più preoccupato di dare rilievo tangibile alle dichiarate ispirazioni del suo cinema piuttosto che lasciarle agi(ta)re saggiamente sullo sfondo, il regista napoletano torna sui luoghi fisici e mnemonici della sua giovinezza abbagliandoli con la luce troppo diretta della sua odierna macchina da presa. La Napoli degli anni 80 di “È stata la mano di Dio” è allora filtrata dall'occhio di un premio Oscar che, in evidente crisi d'ispirazione, ricorre allo stratagemma della ricostruzione cinematografica del dramma autobiografico della perdita dei genitori in giovane età. Un lutto preconizzabile sin dalla prima scena anche a chi non fosse partecipe della biografia sorrentiniana ma fosse in grado di scomporre i segreti della diegesi filmica: la significativa caratterizzazione dei coniugi Schisa (Saverio interpretato dal solito monumentale Toni Servillo, Maria dalla solita sorprendente Teresa Saponangelo, in un bilanciamento di performance bello ma studiato a tavolino) ne annuncia la dipartita ponendosi prepotentemente al centro della catarsi demandata al confuso Fabietto (Filippo Scotti), il figlio un po' musone un po' timido a cui è affidata questa rielaborazione. Ma Sorrentino in fondo fa anche di questo personaggio, che è il suo alter-ego filmico, uno dei tanti caratteristi della sua eterna galleria di freaks sacrificandone la crescita narrativa a favore delle tante fulminanti scene in cui lo coinvolge. 


In maniera mai come questa volta così pervicace, “È stata la mano di Dio” vive dello stesso limite estetizzante del suo cinema da “La grande bellezza” in poi, della frammentazione in quadretti conchiusi e sterili, della sinuosità delle sue forme. Come il Maradona della “Mano de Dios” del titolo, visto e commentato in diretta dalla famiglia allargata del film, Sorrentino lascia andare “Il gol del secolo”, fatto cinque minuti dopo dribblando i difensori inglesi come birilli, fuori campo, facendolo scivolare sulla robotica voce di Bruno Pizzul a favore della rissa domestica di casa Schisa. Questo spudorato accantonamento della “grande bellezza” maradoniana a favore della sua contraddizione viene ripreso naturalmente anche per Napoli, la città dei contrasti per antonomasia. Sorrentino non si lascia sfuggire nessuno degli elementi della sua eterna mitopoiesi: l'alba sul golfo, la Grotta azzurra di Capri, il trafficante malavitoso ma pieno de joy de vivre, il maschio fedifrago, gli affollati pranzi domenicali, il sermone in napoletano strettissimo sulla magnificenza artistica di questo magma socio/culturale. Ed è singolare come Sorrentino cerchi di giustificare perfino il suo ritorno nel capoluogo campano, dopo la lunga parentesi romana che lo ha evidentemente infiacchito, demandando al suo mentore Antonio Capuano la chiusa morale sulla necessità di questo perdurante “nostos”. Se questo servisse a riappacificarlo con la sua idiosincrasia verso l'arte impegnata, perpetrato in maniera quanto mai rozza e senza pietà nei confronti del personaggio dell'attrice Yulia (Sofya Gershevich, ripresa anche lei nelle sue burrose procacità da un Sorrentino, in questo film, in evidente alterazione libidinosa), sarebbe già una buona base di ripartenza per un cinema che necessita di ben altre scosse che questa ridondante cifra autobiografica.

LIBRI & CULTURA CONSIGLIA...