La recensione in anteprima del film LA PELLE DELL'ORSO, tratto dal romanzo di Matteo Righetto, al cinema dal 3 novembre

Recensione a cura di Eleonora Cocola

Immaginate di prendere due personaggi taciturni e liberarli da soli in un bosco, alla ricerca di un orso temibile – così temibile da meritarsi il soprannome El Diàol. Se dovesse uscirne un film, non potrebbe certo puntare sui dialoghi; meglio parlare per immagini, affidandosi alle bellezza delle Dolomiti, ai gesti e alle espressioni dei personaggi. È esattamente questa la strategia di Marco Segato, che al suo esordio al cinema dopo una carriera da
documentarista decide di raccontare una storia d’altri tempi, che permette di parlare di temi universali pur restando ben radicato a una particolare ambientazione e a una precisa circostanza. Partendo dal romanzo di Matteo Righetto, La pelle dell’orso, gli basta anticipare la storia di una decina d’anni in modo da raccontare un’Italia rurale, rigorosamente non ancora sfiorata dal boom economico.

Quella del tredicenne Domenico Sieff e di suo padre Pietro è una vita difficile, segnata dalle fatiche del lavoro in montagna, dal freddo, dalla povertà. A raccontarlo sono le mani callose e il volto segnato di Pietro, gli sguardi preoccupati di Domenico, i gesti lenti e pieni di fatica. E poi c’è il silenzio, che aleggia come uno spettro in casa Sieff: padre e figlio parlano poco o nulla, Domenico segue con gli occhi il suo padre taciturno e ombroso mentre i suoi compaesani gli manifestano il loro disprezzo a occhiatacce, spintoni, male parole. Cerca di avvicinarsi a lui e al massimo riceve un manrovescio. Eppure, quando Pietro decide di mettersi sulle tracce dell’orso che sta terrorizzando la valle spinto dal desiderio di riscatto, Domenico è deciso ad andargli dietro costi quel che costi.

Come nel libro, le montagne sono spettatrici di un viaggio interiore che porta padre e figlio ad abbattere le barriere e riscoprire il loro rapporto. L’orso non è che un simulacro che racchiude tutte le paure più nere dei protagonisti – quelle legate alla crescita, al cambiamento, alla solitudine. La situazione, il viaggio alla caccia al mostro, è archetipica e universalizza il racconto portandolo fuori dalle coordinate spazio-temporali imposte dalla trama – che, per inciso, talvolta pecca un po’ di eccessiva lentezza. Da dimenticare il Marco Paolini loquace cantastorie a teatro: alla sua prima prova come attore protagonista al cinema, il narratore del Racconto del Vajont parla solo quando è strettamente necessario, per il resto vive di espressività - sia mimica, valorizzata dai frequenti primi piani, sia gestuale, riuscendo a tratteggiare un personaggio profondo, solido e sfaccettato, pieno di dignità nonostante gli errori del passato. In un certo senso rispecchia il film nel suo complesso, per descrivere il quale si potrebbero usare gli stessi aggettivi, senza dimenticare di sottolinearne la lontananza dai canoni del cinema italiano.

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