Recensione a cura di Mario Turco
I generi al cinema sono come le mode: vanno, vengono, ritornano dopo decenni d’oblio, s’ibridano con i loro simili rubandone caratteristiche e stilemi per non soccombere. Alcuni hanno natura artificiale perché vengono pianificati da uffici del marketing secondo quadri statistici avanzatissimi, altri nascono per puro caso, inondano gli schermi per alcuni anni per poi morire nell’indifferenza del pubblico che li aveva nutriti. Ecco, per quanto riguarda le trasposizioni hollywwodiane di capolavori manga ci auguriamo presto di passare davanti alle casse vuote delle sale che le proiettano senza degnarle neppure di un ingresso gratis ereditato da un amico. “Alita - Angelo della battaglia”, di Robert Rodriguez in uscita nelle sale italiane dal 14 Febbraio dimostra come questa speranza di insuccesso non sia dettata da intransigenza otaku ma dagli effettivi risultati dell’opera stessa.
Tratto dal fumetto di Yukito Kushiro, l’ultimo film del regista messicano dimostra ancora una volta, dopo l’esito artistico del “Ghost in the shell” di Rupert Sanders del 2017, come l’industria statunitense riesca solo a cogliere lo strato più superficiale di opere agli antipodi del loro modo d’intendere la narrazione. Al film non giova inoltre aver avuto una storia di pre-produzione lunga ormai quasi vent’anni e il cambio di timone dall’originario James Cameron, il cui progetto ancora adesso si può largamente ascrivere avendolo sceneggiato e prodotto, all’amico di scorribande pulp di Quentin Tarantino. Dovendo cercare sia l’equilibrio tra due padri creativi ingombranti (e con visioni di cinema difficilmente conciliabili) sia tra media diversi (il manga fantascientifico-filosofico di partenza composto da più albi da ridurre in due ore di cinema popolare) “Alita - Angelo della battaglia” scontava in ultima e definitiva istanza il ritardo di una visione distopica superata dall’attuale proliferazione di opere coeve. La ricchezza spropositata del budget, 200 milioni di dollari spesi quasi tutti in effetti speciali considerata l’assenza di divi, era il rilancio quasi disperato di fronte a uno scenario economicamente così rischioso. Con tutti questi innesti impiantati a forza era inevitabile che il film diventasse il corrispettivo simbolico della sua protagonista: il cyborg più intensamente opaco mai apparso sullo schermo.
Alita ha infatti due grandi occhi (ed il fatto che dopo i dubbi dei primi test e le solite pernacchie del web la produzione li abbia ridimensionati dimostra l’assenza di una mano autoriale), un cuore che lei stessa plasticamente dona al ragazzo che ama togliendolo dal petto d’acciaio eppure la sua reiterata ricerca d’anima non riesce mai a diventare empatica per lo spettatore. Il film narrativamente corre da subito: la figura dello scienziato Ido che raccoglie i resti del robot dalla discarica rivestendoli con le fattezze della figlia morta richiama troppo scopertamente il Geppetto di Pinocchio. Così come l’unico scenario fantascientifico che contrappone alla Città di Ferro abitata da poveri la Salem che si erge in cielo è dispiegato in minime variazioni con le dicotomie più semplici che si possano immaginare su: sotto vs sopra, poveri vs ricchi, umani vs cyborg. E se il film cerca di far innamorare il pubblico della sua protagonista, robot superpotente dalle fattezze teen, all’ennesima smorfia in Cgi più di un sopracciglio si alza al cielo. “Alita - Angelo della battaglia” nella seconda parte si lascia travolgere dalla componente romantica dell’amore progressista tra la cyborg e l’umano richiamando alla mente fastidiosi paragoni con opere come “Divergent” ed “Hunger Games”. Non benissimo per un’opera che aveva cominciato citando capolavori di ben altra levatura come “Blade Runner”, “Ghost in the shell” (l’anime, ovviamente) e il vecchio “Rollerball”.
“Alita - Angelo della battaglia” con il suo finale scopertamente aperto ha anche il demerito di essere il capitolo primo di un eventuale franchise ma, prevedendo che non farà sfracelli al botteghino per il suo soggetto pur sempre troppo nerd, andrà piuttosto a ingrossare le fila di un genere a cui non avrebbe mai voluto prender parte: quello delle saghe abortite alla “Warcraft”, per intenderci.