Titolo: Il pellegrinaggio. La storia della prima crociata
Autore: Tiit Aleksejev
Editore: Atmosphere Libri
Pagine: 296
Anno di pubblicazione: 2013
Prezzo copertina: 16,00 €
Recensione a cura di Paolo Massimo Rossi
Romanzo storico? No. O, almeno, solo in parte. Direi soprattutto un romanzo epico (ma non un poema!). Naturalmente il riferimento storico è presente e permea lo svolgimento del racconto: la Prima Crociata (1096-1099). Quella voluta dal Papa Urbano II e condotta e organizzata (forse meglio: disorganizzata) da Raimondo duca di Provenza, Goffredo di Buglione della Bassa Lorena, Boemondo di Taranto e Baldovino delle Fiandre.
Il romanzo è storico nel suo essere intriso del millenarismo che ossessionava il mondo europeo medievale sin da quando Giovanni scrisse l’Apocalisse: da quando, cioè, si era consolidata l’idea di una escatologia cristiana che vedeva (o aveva la presupponenza di vedere) la fine della storia nell’approdo alla Gerusalemme celeste. Ma il romanzo è epico nel narrare la metamorfosi del protagonista che, da personaggio quasi anonimo (segretario di un estensore di cronache, coppiere al banchetto di nobili), si trasforma, strada facendo, in eroe. Novello D’Artagnan per come si abbandona al proprio coraggio, come anche per la progressiva maturazione della personalità. Sino a diventare epigono di Ulisse per la saggezza e per la capacità di usare l’astuzia nel finale. Come in tutte le storie epiche, ha accanto dei valorosi compagni d’avventura, quasi moschettieri ante litteram: Léon, Guihan, Mecharim e soprattutto Dieter il quale, scomparendo, non può che trasfondersi nel protagonista. Non a caso, l’iniziale anonimo assistente dell’annalista Raimundus assume proprio Dieter come nome, quando la storia comincia a delinearsi con chiarezza.
Il prologo: Dieter, ormai vecchio, racconta la propria storia a una fanciulla che frequenta l’Abbazia nella quale si è ritirato a finire i suoi giorni. E’ a lei che racconta gli anni trascorsi: “Ho vissuto molte vite. Sono stato colui che tiene la penna, e colui che tiene la spada. Tutto si è dissipato come fumo nel vento”. In questa confessione è racchiusa la vita del protagonista, Dieter, che passa attraverso gli avvenimenti come uno tra tanti – immemore la storia - mentre quella della Crociata resta come sovrastante flusso di visioni. Un flusso che mostra un cosmo monadico per la prospettiva con la quale, con letterario e storico conformismo, pretende di mostrare la “Verità” nei riguardi dell’umanità di quegli anni. Dieter parte per la crociata, inizia il suo noviziato da assistente scrivano e si trasforma, quasi incredibilmente, in guerriero. Come accade in ogni romanzo d’avventura, conosce la “Donna” (Maria di Tolosa) che a malapena si accorge della sua esistenza sino a quando è un umile assistente dei suoi padroni (lo storico Raimundus prima e il nobile Raimondo più tardi), ma che si innamora quando il timido anattrocolo coppiere/aspirante scrivano si trasforma in un eroe guerriero.
Dieter diventa dunque, da semplice miles, condottiero di uomini d’arme e, come tale, sembra riesca quasi da solo a travolgere le difese, pur munite, degli infedeli nella battaglia di Dorylaeus e, soprattutto, nella presa di Antiochia. Da quel momento, accettando di essere vittima e protagonista del suo destino, non può più tornare al mondo delle lettere cui sembrava avviato: non gli resta che attraversare la storia del Pellegrinaggio con furore e, successivamente, con saggezza man mano acquisita. Il dominio che raggiunge sui propri istinti e sulla propria volontà (e qui si disegna un nuovo salto di qualità, poco credibile invero in un aspirante scrivano già divenuto condottiero nel lasso di tempo di pochi mesi), gli permette di conoscere e partecipare alla politica, di rifiutarsi ai compromessi di questa, di operare con astuzia e sagacia quando sembra accondiscendere a collusioni con personaggi dei quali riesce a piegare l’arroganza. Sino a ottenere il raggiungimento dei suoi desideri: essenzialmente, conquistare l’amore di Maria di Tolosa.
Dunque, affresco tragico ed epico (e l’epica non può che essere tragica) di storie attraversate da presenze soprannaturali come Dio e la terra santa, ma anche da verità terrene come l’amore, il denaro, l’amicizia, il tradimento. Eppure il romanzo, al di là del contenuto che si rifà a clichés consolidati per avvincere il lettore, presenta momenti di qualche debolezza: non nello sviluppo della storia, che ha una credibilità intrinseca – né potrebbe essere diversamente – ma nel ritmo narrativo e nel linguaggio. Il ritmo è monotono sino, in alcuni passaggi, a rasentare la noia; mentre, il registro linguistico, perseguito con grande attenzione da Aleksejev, appare, proprio nella sua uniformità, metafora di quella stessa monotonia. Concedendosi soltanto qualche saltuaria trasgressione allorché utilizza (quasi smaccatamente) il linguaggio proprio del mito - questo chiaramente mutuato da tradizioni della classicità: ad esempio nella descrizione delle battaglie. Ne risulta, al riguardo, una dicotomia che rende avulsa (linguisticamente parlando) la teatralizzazione dei gesti d’arme dal resto del racconto; là dove, invece, sarebbe stato preferibile (e possibile) un’ armonia e una continuità nella diversità che avrebbe reso più ammaliante la storia. In tal modo, l’autore, celebrando il rito di tanti scrittori che inseguono un finalismo rassicurante delle storie, manipola la capacità ricettiva del lettore cercando di trasportarlo al punto di vista mitologico - o, in ogni caso, sottomettendolo a sottintesi ideali che dichiaratamente connotano le scelte di alcuni dei protagonisti - salvo poi farlo ricadere nella palude delle attese.
A merito di Aleksejev, non si può non riconoscere, però, la coerente linea diretta tra l’opera e la sua percezione, quasi che il racconto sia un dipinto da osservare con atteggiamento di prolungata meditazione, scoprendone, nella a volte manieristica composizione, accennati particolari di modernismo descrittivo e culturale.
L'AUTORE
Tiit Aleksejev (nato nel 1968) si è laureato presso l'Università di Tartu, in Estonia, in Storia Medievale. Ha lavorato come diplomatico a Parigi e Bruxelles; attualmente vive a Tallinn. Il suo primo racconto, Tartu Rahu, ha vinto il premio annuale della rivista letteraria Looming nel 1999. Il suo primo romanzo, Valge kuningriik, un thriller la cui azione si svolge a Parigi e, a posteriori, in Afghanistan nel 1980, ha vinto il Premio Betti Alver nel 2006 per il miglior romanzo d'esordio. Per scrivere Palveränd (Il pellegrinaggio), Aleksejev ha ricercato materiale per dieci anni e ha visitato le principali scene di battaglia in Terra Santa. Con questo romanzo, nel 2011, ha vinto il premio dell'Unione europea per la letteratura.
Autore: Tiit Aleksejev
Editore: Atmosphere Libri
Pagine: 296
Anno di pubblicazione: 2013
Prezzo copertina: 16,00 €
Recensione a cura di Paolo Massimo Rossi
Romanzo storico? No. O, almeno, solo in parte. Direi soprattutto un romanzo epico (ma non un poema!). Naturalmente il riferimento storico è presente e permea lo svolgimento del racconto: la Prima Crociata (1096-1099). Quella voluta dal Papa Urbano II e condotta e organizzata (forse meglio: disorganizzata) da Raimondo duca di Provenza, Goffredo di Buglione della Bassa Lorena, Boemondo di Taranto e Baldovino delle Fiandre.
Il romanzo è storico nel suo essere intriso del millenarismo che ossessionava il mondo europeo medievale sin da quando Giovanni scrisse l’Apocalisse: da quando, cioè, si era consolidata l’idea di una escatologia cristiana che vedeva (o aveva la presupponenza di vedere) la fine della storia nell’approdo alla Gerusalemme celeste. Ma il romanzo è epico nel narrare la metamorfosi del protagonista che, da personaggio quasi anonimo (segretario di un estensore di cronache, coppiere al banchetto di nobili), si trasforma, strada facendo, in eroe. Novello D’Artagnan per come si abbandona al proprio coraggio, come anche per la progressiva maturazione della personalità. Sino a diventare epigono di Ulisse per la saggezza e per la capacità di usare l’astuzia nel finale. Come in tutte le storie epiche, ha accanto dei valorosi compagni d’avventura, quasi moschettieri ante litteram: Léon, Guihan, Mecharim e soprattutto Dieter il quale, scomparendo, non può che trasfondersi nel protagonista. Non a caso, l’iniziale anonimo assistente dell’annalista Raimundus assume proprio Dieter come nome, quando la storia comincia a delinearsi con chiarezza.
Il prologo: Dieter, ormai vecchio, racconta la propria storia a una fanciulla che frequenta l’Abbazia nella quale si è ritirato a finire i suoi giorni. E’ a lei che racconta gli anni trascorsi: “Ho vissuto molte vite. Sono stato colui che tiene la penna, e colui che tiene la spada. Tutto si è dissipato come fumo nel vento”. In questa confessione è racchiusa la vita del protagonista, Dieter, che passa attraverso gli avvenimenti come uno tra tanti – immemore la storia - mentre quella della Crociata resta come sovrastante flusso di visioni. Un flusso che mostra un cosmo monadico per la prospettiva con la quale, con letterario e storico conformismo, pretende di mostrare la “Verità” nei riguardi dell’umanità di quegli anni. Dieter parte per la crociata, inizia il suo noviziato da assistente scrivano e si trasforma, quasi incredibilmente, in guerriero. Come accade in ogni romanzo d’avventura, conosce la “Donna” (Maria di Tolosa) che a malapena si accorge della sua esistenza sino a quando è un umile assistente dei suoi padroni (lo storico Raimundus prima e il nobile Raimondo più tardi), ma che si innamora quando il timido anattrocolo coppiere/aspirante scrivano si trasforma in un eroe guerriero.
Dieter diventa dunque, da semplice miles, condottiero di uomini d’arme e, come tale, sembra riesca quasi da solo a travolgere le difese, pur munite, degli infedeli nella battaglia di Dorylaeus e, soprattutto, nella presa di Antiochia. Da quel momento, accettando di essere vittima e protagonista del suo destino, non può più tornare al mondo delle lettere cui sembrava avviato: non gli resta che attraversare la storia del Pellegrinaggio con furore e, successivamente, con saggezza man mano acquisita. Il dominio che raggiunge sui propri istinti e sulla propria volontà (e qui si disegna un nuovo salto di qualità, poco credibile invero in un aspirante scrivano già divenuto condottiero nel lasso di tempo di pochi mesi), gli permette di conoscere e partecipare alla politica, di rifiutarsi ai compromessi di questa, di operare con astuzia e sagacia quando sembra accondiscendere a collusioni con personaggi dei quali riesce a piegare l’arroganza. Sino a ottenere il raggiungimento dei suoi desideri: essenzialmente, conquistare l’amore di Maria di Tolosa.
Dunque, affresco tragico ed epico (e l’epica non può che essere tragica) di storie attraversate da presenze soprannaturali come Dio e la terra santa, ma anche da verità terrene come l’amore, il denaro, l’amicizia, il tradimento. Eppure il romanzo, al di là del contenuto che si rifà a clichés consolidati per avvincere il lettore, presenta momenti di qualche debolezza: non nello sviluppo della storia, che ha una credibilità intrinseca – né potrebbe essere diversamente – ma nel ritmo narrativo e nel linguaggio. Il ritmo è monotono sino, in alcuni passaggi, a rasentare la noia; mentre, il registro linguistico, perseguito con grande attenzione da Aleksejev, appare, proprio nella sua uniformità, metafora di quella stessa monotonia. Concedendosi soltanto qualche saltuaria trasgressione allorché utilizza (quasi smaccatamente) il linguaggio proprio del mito - questo chiaramente mutuato da tradizioni della classicità: ad esempio nella descrizione delle battaglie. Ne risulta, al riguardo, una dicotomia che rende avulsa (linguisticamente parlando) la teatralizzazione dei gesti d’arme dal resto del racconto; là dove, invece, sarebbe stato preferibile (e possibile) un’ armonia e una continuità nella diversità che avrebbe reso più ammaliante la storia. In tal modo, l’autore, celebrando il rito di tanti scrittori che inseguono un finalismo rassicurante delle storie, manipola la capacità ricettiva del lettore cercando di trasportarlo al punto di vista mitologico - o, in ogni caso, sottomettendolo a sottintesi ideali che dichiaratamente connotano le scelte di alcuni dei protagonisti - salvo poi farlo ricadere nella palude delle attese.
A merito di Aleksejev, non si può non riconoscere, però, la coerente linea diretta tra l’opera e la sua percezione, quasi che il racconto sia un dipinto da osservare con atteggiamento di prolungata meditazione, scoprendone, nella a volte manieristica composizione, accennati particolari di modernismo descrittivo e culturale.
L'AUTORE
Tiit Aleksejev (nato nel 1968) si è laureato presso l'Università di Tartu, in Estonia, in Storia Medievale. Ha lavorato come diplomatico a Parigi e Bruxelles; attualmente vive a Tallinn. Il suo primo racconto, Tartu Rahu, ha vinto il premio annuale della rivista letteraria Looming nel 1999. Il suo primo romanzo, Valge kuningriik, un thriller la cui azione si svolge a Parigi e, a posteriori, in Afghanistan nel 1980, ha vinto il Premio Betti Alver nel 2006 per il miglior romanzo d'esordio. Per scrivere Palveränd (Il pellegrinaggio), Aleksejev ha ricercato materiale per dieci anni e ha visitato le principali scene di battaglia in Terra Santa. Con questo romanzo, nel 2011, ha vinto il premio dell'Unione europea per la letteratura.
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