La recensione del film "City of lies - L'ora della verità", di Brad Furman. Al cinema dal 10 gennaio
Recensione a cura di Mario Turco
cinematografico.
In U.S.A., a differenza che da noi, la riflessione teorica su misteri come questi continua a generare film mediocri come “City of lies-L’ora della verità”, di Brad Furman in uscita nelle sale italiane dal 10 gennaio. Il giovane regista del film, come altri suoi colleghi a stelle e strisce, mantiene costante la sensazione di meraviglia spettatoriale di fronte ad una storia molto difficile da digerire e non rielabora mai, da uomo di cinema, quegli avvenimenti secondo un’ottica personale o quantomeno inusuale. “City of lies-L’ora della verità” ha infatti quasi tutti i difetti del cinema di denuncia politica senza averne i pregi. La sceneggiatura di Christian Contreras, basata sul libro candidato al Pulitzer “Labyrinth” di Randall Sullivan, non aiuta la fluidità della messa in scena. La storia raccontata infatti copre un ventaglio fin troppo ampio di fatti, dalle morti dei due rapper al caso di corruzione più grande della polizia di Los Angeles (il caso “Rampart”), fino ad arrivare perfino a toccare gli scontri di Los Angeles in seguito al brutale pestaggio del tassista afroamericano Rodney King. Un groviglio di fatti e nomi che Furman mantiene intatto, inestricato e inestricabile da un pubblico che abiti fuori le cinta della città degli angeli.
La suggestione iniziale che sulle immagini reali di quelle violenze fa iniziare il riff di “Sleep now in the fire” dei Rage Against The Machine è bruciata, viene proprio la voglia di scriverlo, in un’unica fiammata destinata a non avere seguito. Il film infatti prende da subito un taglio televisivo/documentaristico con l’ex detective Poole che racconta al giornalista Jackson la sua ossessione per il caso della morte del rapper Notorious B.I.G. osteggiata sempre più apertamente dai suoi colleghi poliziotti. “City of lies-L’ora della verità” dopo una prima mezz’ora giocata sul filo dell’ambiguità (il poliziotto in pensione sembra un monomaniaco fallito) scopre le carte di una santificazione troppo netta. Poole sembra sempre un passo avanti la verità, aiutato da una dedizione e un’onestà cieca che gli hanno fatto perdere gli affetti più cari ma mai la bussola della giustizia. Nemmeno l’interpretazione di un Johnny Depp in stato di grazia che si compiace di nascondersi dietro il trucco e le vere rughe degli eccessi degli ultimi anni (menzioniamo la litigata col location manager del film perché probabile causa dello slittamento dell’uscita americana) riesce a tagliare un po’ di granito da questa figura descritta dalla sceneggiatura come un monolite d’etica marmorea. E così l’inchiesta non lascia inevasa nessuna delle sue mille denunce, dall’infiltrazione di esponenti della casa discografica Death Row Records all’interno del Bureau di Los Angeles alla tesi complottistica che il caso Rampart fu fatto scoppiare per distogliere l’attenzione dall’indagine sugli assassini di Biggie Small.
La mancata distanza dalla materia narrata, il budget ridotto, il taglio cronachistico e la pervasività della musica fanno sì che il ritmo sia altalenante e faccia più uso dei racconti del protagonista che della messa in immagini. Quando allora il film sceglie di giocare i due acmi emozionali, il cameo di Violetta Wallace nei panni di sé stessa e la morte di Russell Poole nella centrale di polizia proprio quando stava per far riaprire l’indagine, lo spettatore arriva spompato, senza fiato mnemonico a causa di tutti i collegamenti richiestigli. “City of lies-L’ora della verità” cercando a tutti i costi il rischio di scadere nel biopic (Tupac e Notorious B.I.G. sono sempre inquadrati da lontano) non riesce però a far contenti nemmeno i fan della scena hip-hop mancando anche la quadratura del contesto d’insieme. Un film che ancora una volta dimostra come la giustezza delle intenzioni significhi nulla al cinema se non supportato da un adeguato senso narrativo.