La recensione di "Edipo Re", che per la regia di Andrea De Rosa è in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 9 marzo

Recensione a cura di Mario Turco

"Apollo l’obliquo, Apollo il contorto, Apollo l’arrogante, Apollo l’arciere, il Figlio della Lupa, il camminatore, Apollo il giustiziere, Apollo vendicatore del sangue, arciere della morte, Apollo l’eccessivo, Apollo il simile alla notte, Apollo l’orgoglioso, lo scuoiatore, Apollo fondatore di città, signore degli oracoli, del prima e del poi, Apollo signore della Parola, dio dei viaggiatori e dei fanciulli, signore del fuoco e delle pestilenze, Apollo incoronato di alloro, Apollo il sublime danzatore". Sta in questo sublime canto/controcanto, in questo inno/maledizione, in questa lode/invettiva recitati a due voci dalle ieratiche e straordinarie Francesca Cutolo e Francesca Della Monica uno dei tanti abissi mistici spalancati dalla visione di "Edipo Re", che per la regia di Andrea De Rosa sarà in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 9 marzo. 


Uno spettacolo sontuoso che dopo lo straordinario successo dell'anno precedente al Teatro Grande di Pompei nell'ambito della rassegna Pompeii Theatrum Mundi sta girando in una tournée nei teatri italiani che ne conferma la ricchezza qualitativa. Produzione Teatro Piemonte Europa, Teatro di Napoli, LAC, Teatro Nazionale di Genova, Emilia-Romagna Teatro ER, Edipo Re porta quindi anche sul palco del teatro di Monteverde la più famosa tragedia di Sofocle - e probabilmente del teatro intero - avvalendosi della mirata e cesellata traduzione di Fabrizio Sinisi. La versione di Sinisi/De Rosa accoglie lo spettatore con la prima delle tanti rivoluzioni che riescono, in maniera quasi misteriosa e perfino illogica, ad allontanarsi dall'originale greco pur rispettandolo con deferenza: la scenografia di Daniele Spanò, agli antipodi da qualunque intento mimetico e naturalistico, ai lati e dietro è infatti ornata da una selva di fari teatrali mentre in posizione più centrale ci sono pannelli di plexiglass lordati da quella che appare una calce vischiosa. Come presenze fantasmatiche, seminascoste da quelle protezioni ma pur sempre in vista e con una voce distorta, ecco che le due attrici del Coro cominciano a grattare la superficie dell'attesa del pubblico con strida e raucedini che via via si aprono verso accenni di un canto greco. In questa atmosfera plumbea, gravata da una luce arancione calda che sembra agire come una prolessi sul destino errante di Edipo nell'Attica dopo l'auto-accecamento, arriva finalmente il nuovo sovrano di Tebe (un Marco Foschi incredibilmente bravo e spiritato), orgoglioso per aver sconfitto la Sfinge e aver ottenuto dalla città il trono del defunto Laio. L’indagine sull’assassino del suo precedessore, come noto, si rovescerà nel più possente capovolgimento “thriller” (“L’assassino è qui, a Tebe, in mezzo a noi”) che il mito e la narrativa ci abbiano mai dato facendo del committente dell’inchiesta il colpevole (Quel “Sei tu” di selvaggio dolore sussurrato dal dio rimane uno dei momenti più alti della pièce) del terribile misfatto. 


Edipo Re ha però l’intelligenza di non accontentarsi di una qualunque rilettura “postuma” della tragedia originale ma di presentarla come se fosse, se non proprio la prima versione quantomeno come una sua replica appena successiva. Ecco che i personaggi si concentrano diventando soltanto sei, la coreografia delle entrate e uscite di scena viene cancellata quasi del tutto in un processo di astrazione molto moderno ma sempre leggibile e la musica di G.U.P. Alcaro, coi suoi ritmi elettronici ed oscuri, viene a prendere le veci del Coro. Pur insistendo con grande riuscita sulla tetraggine della storia, Andrea De Rosa si lascia lo spazio per un paio di dissonanze emotive che non lasciano scampo empatico ad un cuore anche solo mediamente sensibile. La risata isterica di Giocasta (una Frédérique Loliée perfetta), fin lì altera e ammaliante, alla presa d’atto dell’inveramento della profezia o la danza rock di Apollo (Roberto Latini) che racconta l’esito funesto di quel superbo e allo stesso tempo fragile atto d’hybris sono contrappunti sentimentali che fanno più male delle urla angosciate dell’infetto Edipo. La peste che l’ha punito dando forma fisica alla sua cecità morale si chiama aletheia e trova forse la forma definitiva nell’ultimo disperato invito rivolto a Creonte: “Seppellisci tua sorella, seppellisci mia madre, seppellisci la madre dei miei figli”.

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