La recensione de "La casa degli sguardi", di Luca Zingaretti nelle sale dal 10 aprile distribuito da Lucky Red

Recensione a cura di Mario Turco

Nel suo ultimo straordinario saggio, "Volti", l'antropologo francese David Le Breton fa un lungo excursus storico per rintracciare il cambio di paradigma che ha permesso alle facce di uomini e donne di diventare così dirimenti nella società e nella cultura. Lo studioso rintraccia questo punto di svolta nel periodo che seguì il Rinascimento, quando il volto umano passò dall'essere rappresentativo della comunità d'appartenenza a segno inequivocabile della singola individualizzazione. I lineamenti del viso non indicavano più soltanto la classe o il luogo d'appartenenza ma la storia personale, i traumi e i cambiamenti della propria vita. 


Questo metodo d'indagine può benissimo essere prestato anche al cinema: i film non sono soltanto prodotti culturali del Paese che li ha generati ma esprimono anche l'indicibile visione del regista. "La casa degli sguardi", di Luca Zingaretti in uscita nelle sale italiane dal 10 aprile grazie alla distribuzione di Lucky Red può, in questo senso, essere quasi un caso di studio sulla "individualizzazione sociale", per usare ancora le parole di Le Breton, che un'opera artistica segnala. Caso moltiplicato all'n potenza se si considera che la base di partenza dell'esordio registico del celebre attore romano è l'omonimo romanzo scritto da Daniele Mencarelli, vero e proprio caso editoriale che ha lanciato la carriera dello scrittore del successivo “Tutto chiede salvezza”, candidato addirittura allo Strega. Presentato in anteprima ad ottobre alla Festa del cinema di Roma, La casa degli sguardi è quindi un film che segnala molto dello sguardo zingarettiano sul mondo e allo stesso tempo è sintomatico di una certa tendenza del cinema italiano mainstream a normalizzare anche soggetti che, a livelli produttivamente meno impegnativi, avrebbero sicuramente accentuato le inquietudini di partenza. Marco (Gianmarco Franchini in una performance tutta cuore e nervi a cui Zingaretti affida fin troppo generosamente il battito emotivo dell'intero film) è un ragazzo di 23 anni che scrive poesie su un fazzoletto di carta mentre sbevacchia senza limiti in un bar di periferia. È teso per il reading di poesia a cui dovrebbe partecipare ma la sua insicurezza e il suo difficile passato gli fanno annegare i tremori, anche questa sera, nell'alcol. Così si ubriaca e quando prende l'automobile rimane coinvolto in un incidente stradale che lo costringe a passare la notte all'ospedale. Il padre (lo stesso Luca Zingaretti che sceglie con troppa schematismo di giocare invece di sottrazione), dipendente Atac, e il suo editore per evitargli guai con la giustizia lo costringono allora ad accettare un lavoro come addetto alle pulizie all'ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma. Il turbolento ragazzo, pur tra continue ricadute nel vizio e la tendenza a ribellarsi ai rigidi codici normativi del nuovo impiego, troverà all'interno della struttura medica un'umanità in grado di far esplodere la sua sensibilità artistica in un progetto editoriale riassuntivo delle sue esperienze. 


La casa degli sguardi è un lungometraggio che sceglie di stemperare il duro materiale di partenza verso stilemi cinematograficamente più abbordabili dal grande pubblico. La dipendenza del protagonista da alcol e droghe – quest’ultime solo nominate e mai mostrate – viene così ricondotta in maniera troppo semplicistica al lutto materno. L’insistenza dei flashback e la sovraesposizione diegetica del padre conducono il malessere di Marco ad una dolorosa ma temporanea frattura familiare che, ove riparata, sembra suggerire la direzione registica, lo condurrà verso il riallineamento sociale. Zingaretti ci mostra infatti solo qualche brace della fiamma poetica che arde il protagonista immergendo piuttosto il suo malessere esistenziale e la sporadica lettura dei suoi versi specificatamente nel contrito rapporto paterno. Cinema di papà, insomma, ma ancor più vetusto di quello contro cui lottarono gli esponenti della nouvelle vague perché profondamente incistato – suo malgrado, Zingaretti ha una tempra morale indiscutibile – nell’ordito societario italiano che vede quasi sempre l’origine del male del singolo in qualche fallimento istituzionale. La casa degli sguardi non si fa mai coinvolgere o affascinare dalle turbe esistenziali di Marco perché più interessato a comprenderle e suggerire razionali punti di fuga. La storia con “tictoc” e i rapporti con gli altri lavoratori vengono infatti ricalcati dal romanzo originale ma l'edulcorazione dei drammi – di Alfredo non si vede né cadavere né il corpo malato mentre i conflitti con la squadra di Giovanni vengono asciugati – li depotenzia di molto, rendendoli simili a quelli di serie tv di successo come “Braccialetti rotti”. Mai come in questo caso un simile soggetto avrebbe meritato una rabbia giovane piuttosto che una pacata denuncia.

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