La recensione di "Vita immaginaria", testi di Natalia Ginzburg in scena al teatro Torlonia di Roma dal 4 al 6 aprile
Recensione a cura di Mario Turco
Vita immaginaria si apre proprio con lo strombazzo dei clacson delle auto e con le immagini in camera-car del traforo che collega via Nazionale a via del Tritone. Il racconto di Ginzburg prende l'abbrivio dal cambiamento che la scrittrice trova sia avvenuto nel tunnel più importante del centro storico: se prima al suo interno per l'attivista "iscritta al Partito d'Azione, un partito che non c'è più" era possibile sentire perfino odori di cucina o rumori domestici adesso anche lo spazio fisico sembra ridotto, tanto da costringerla a camminare rasente al muro per evitare di essere investita da quelle auto così aggressive. Poco prima di questo aneddoto, a mo' di (finta) contestualizzazione campeggiava nel video che sormonta il palco uno dei più celebri aforismi dell'eclettica scrittrice: "Non si amano soltanto le memorie felici. A un certo punto della vita ci si accorge che si amano le memorie". Ma le successive parole dei racconti di Vita immaginaria, scritti in età matura da Ginzburg, fanno riferimento al passato non per avvoltolarsi nella nostalgia ma soltanto perché sono il segno più tangibile, più visivo e sperimentabile di una trasformazione sempre in essere. "Non è a Roma che tocca di cambiare ma a noi" chiosa la scrittrice infatti più tardi, quando paragona la capitale a un amore del passato "stanco, sbiadito ma insostituibile". La scelta della crestomazia fatta da Trevi e Stancanelli fa risaltare l’approccio dolente ma mai cinico dell’autrice verso una città che non ha ancora deciso “se essere Nord o Sud, se Trento o Palermo”, “questa Roma che sembra più non piacere a nessuno ma che in realtà amiamo tutti”.
L’analisi proposta da Vita immaginaria è, in questo senso, rivelatrice di un malessere contemporaneo che si accanisce quando deve sull’amministrazione gentrificata che cambia i connotati delle strade – “In questa città oggi sembrano dominare i ristoranti” suona ancor più amaro dopo la delibera comunale che prolunga l’abuso dei dehors – ma sa anche librarsi alto con un sardonico sberleffo. È il caso di quella specie di filastrocca cantata e ballata con piccoli gesti delle mani e delle anche dalla splendida Iaia Forte che prende in giro i troppi negozi della capitale che rubano spazio ai marciapiedi con le loro masserizie destinate al consumo e alla sporcizia. E allora di fronte alla più terribile e alla più splendida delle capitali europee, dove le “stagioni sono confuse” e la sua intelligenza che “scalda il cuore” non ha mai saputo diventare istituzionalmente altrettanto capace, tocca non fermarsi mai: “Camminare. L’importante è camminare e allontanarsi dalle cose che ci fanno piangere”. Così magari si scoprono piccole grandi serate come questa, una lettura di un’autrice penetrante portata in scena da una regista col giusto trasporto e calore - il tavolo coi giornali, quello con la teiera, gli spezzoni video da “Roma”, di Federico Fellini, non caso un altro provinciale adottato di talento – che fanno fare pace, anche solo per qualche ora, col suo caos inscusabile. Poi, proprio come Iaia Forte che a chiusura dello spettacolo torna nel delirio di auto da cui era uscita, si può tornare a maledire questa città eternamente matrigna.