La recensione di "Un film fatto per Bene", di Franco Maresco nelle sale italiane dal 5 Settembre grazie a Lucky Red
Recensione a cura di Mario Turco
"Un film fatto per Bene", di Franco Maresco, presentato in Concorso il 5 settembre all'82ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia e contemporaneamente distribuito nelle sale cinematografiche italiane dalla produttrice Lucky Red (quando però è Netflix ad annullare il confine tra presentazione al festival e uscita in streaming tutti a stracciarsi le vesti per lo strapotere del colosso statunitense), è infatti il prodotto perfetto per il definitivo inglobamento del regista siciliano nel tanto vituperato mainstream festivaliero. Poco conta la sua assenza alla Mostra - ormai un accettato vezzo d'autore salingeriano - perché questo suo ultimo film ha tutte le caratteristiche strutturali per essere capito e trasmesso da chiunque. Un film fatto per Bene prende il via dalla conclamata follia di Franco Maresco che, dopo aver constatato il "filmicidio" a cui il lungometraggio su cui stava lavorando incentrato sull'attore Carmele Bene è stato indotto, scompare dalle scene costringendo il suo amico e sodale compagno di lavoro Umberto Cantone a cercarlo per tutta Palermo. Lo sceneggiatore incontra il suo autista di fiducia (altro riuscito personaggio mareschiano ma che comincia a puzzare di manierismo coi suoi tartagliamenti religiosi) e i suoi collaboratori, facendosi inoltre strada tra materiali di repertorio della carriera del regista, sequenze abortite del film in lavorazione e straordinari recuperi mai visti delle precedenti lavorazioni (l'apicale scontro con la "star" Marcello Miranda ai tempi di Cinico Tv). In questo viaggio a ritroso per cercare di salvare un film impossibile, il ritratto umano e artistico del "Carmele Bene del XXI secolo" emerge con una nitidezza che solo un falso documentario può fornire...
Ecco, si può partire proprio dalla forma di Un film fatto per Bene per cercare di rintracciare i limiti di questa autobiografia fatta per interposta persona. In evidente e acuita crisi personale, con la mordacchia della depressione ad abbatterlo a più riprese come denunciato dalla sua stessa voce nella bella e cèliniana (lo scrittore è citato ben due volte) carrellata funerea al cimitero, Maresco cerca negli scarti, negli errori ma anche nei successi (il lungo e finalmente conciliato passaggio sulla ventennale collaborazione con Daniele Ciprì) e nella censura di “Totò che visse due volte” gli appigli per tornare a creare dietro la spinta produttiva, caricata iperbolicamente ma pur sempre avvertita come coatta, del produttore Andrea Occhipinti. La risposta di Maresco a questa trazione è l’evasione, il frammento che lascia aperte le porte del rimpianto artistico – una delle possibili vette del cinema italiano degli ultimi decenni, ovvero l’incursione di Antonio Rezza nei panni della Morte bergmaniana, dura appena due minuti! -, la conferma delle sue unicità (il sadico trattamento riservato a Francesco Puma). In questo flusso continuo di fughe, rifiuti, depistaggi (la scena biografica/poetica di derivazione teatrale sulla cena con l’attore avatar di Carmelo Bene) non mancano nemmeno le solite uscite apodittiche di nichilismo facilmente confutabili: "La tecnologia è la vendetta dei mediocri sugli artisti veri: chi non sa fare niente oggi può sempre fare un film". Come se fosse consapevole di dover confermare il ritrovato affetto del pubblico, il regista palermitano allora in Un film fatto per Bene gli apparecchia in maniera beffarda e aspra una riflessione sulla sua (im)possibile biografia disseminandola sì di false tracce ma anche di insospettabilmente teneri modi di fruirla. Noi, arbasiniamante, aspettiamo che da venerato maestro Franco Maresco torni a essere il solito stronzo.