Recensione: Nome di donna, di Marco Tullio Giordana. Al cinema dall'8 marzo

Recensione a cura di Mario Turco

La questione delle molestie sessuali subite dalle donne sul luogo di lavoro è in questi mesi in cima ai topic trend di ogni piattaforma mediatica a causa dell’esplosione del caso Weinstein che ha attirato le ire di gran parte della popolazione femminile e non. Ma, come per tutti i temi saliti alla ribalta troppo frettolosamente e potenzialmente decifrabili da chiunque, esso è stato oggetto di una cannibalizzazione feroce che ha avuto come solo

risultato di concentrarsi quasi esclusivamente sul singolo caso che non piuttosto su un’attenta disamina delle relazioni di genere che vi sottendono. Improvvido giunge allora anche il film di Marco Tullio Giordana “Nome di donna” in uscita nelle sale dall’8 Marzo. 

Sin dalla la scelta del giorno si dimostra quanto “alimentare” (nel senso più innocente del termine, ovverosia che vuol essere anche esso parte importante della dieta tematica) sia anche il contributo che il film si prefigge nonostante sia stato pensato e scritto due anni fa, cioè ben prima delle lotte del Movimento MeToo. Un approccio da instant-movie quindi, con facilonerie di scrittura che però non si perdonano a un’opera che ha invece giovato del respiro lungo dell’opera cinematografica. Il lungo lavoro di ricerca giornalistica condotto dalla sceneggiatrice Cristina Mainardi si esaurisce nel giro di un paio d’accenni alla legge sulle molestie (prima che venisse potenziata con la recente riforma) e casi antichi di sopraffazioni sessuali condotte da chi deteneva il potere, ovviamente maschile, di decidere chi mandare a lavorare sui campi agricoli. Giordana si fa subito imbrigliare dall’importanza del tema cercando d’investire il singolo caso di Nina, ragazza madre vittima delle lascive attenzioni del responsabile della struttura per anziani dove presta servizio come inserviente, di un significato parabolico. 

Piccolo accenno apparentemente fuori contesto ma che intende far luce sul medio-progressismo del regista è il suo scontato appoggio durante le interviste post-proiezione ad Asia Argento per la denuncia del suo caso: come se rimbrottarla per l’eccessiva cautela temporale intendesse esclusivamente “metterla in croce” invece di scandagliare i motivi di quella reticenza lunga un ventennio. Tornando a “Nome di donna” i personaggi, nonostante la volontà del parte del regista di Crema di “sottrarsi alla trappola insopportabile del film militante, della buona causa”, sembrano schierati sul campo bellico del manicheismo: da una parte i buoni proletari che subiscono le angherie di gente con denaro e potere, dall’altra i ricchi cattivi protetti dalla loro rete di connivenze. Uno sguardo sociologico di annacquata fattura che ha peraltro il demerito di marcare con lo stigma del vizio l’abuso sessuale del dirigente Marco Maria Torri (pure il doppio nome mariano, non sia mai che lo spettatore non cogliesse il ceto del cattivo!) invece di cercare di rintracciarne le origini nella millenaria concezione patriarcale dell’Occidente. Una scelta di campo, insomma troppo irruente e priva di sovrastruttura concettuali che peggiora col prosieguo del film e che, nonostante la perizia registica che si balocca con vedute aeree sui bei luoghi della vicenda, lo fa scendere ai livelli di una docu-fiction adatta a solleticare tutte le corde dell’indignazione del pubblico di bocca buona di una prima serata Tv. 

L’ingresso sulla scena dei santini di donne emancipate come la sindacalista, la figlia ribelle o, peggio ancora, l’avvocatessa interpretata da Micaela Cescon, fa crollare tutto l’impianto narrativo verso un’improbabile lotta procedurale che mostra tutta l’imperizia legale del regista. Il filmato delle nefandezze di Torri illegalmente carpito dal suo studio con un blitz tecnologico (e che strappa una risata per il suo essere così fuori contesto in una fino a quel momento bucolica campagna lombarda) e la successiva condanna a sei anni per una, dicasi una, molestia accertata denotano quantomeno un ottimismo che anche il buon Frank Capra avrebbe derubricato a favolismo. “Nome di donna” si accontenta allora di chiamare semplicemente gli abusi col loro nome invece di capire ogni singola dinamico che sta dietro quel linguaggio così prevaricatore.

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