La recensione dello spettacolo “Veni Vici Domini”, di Nicola Vicidomini

Recensione a cura di Mario Turco

In questi ultimi anni Nicola Vicidomini ha rappresentato un rinfrescante sputo (per restare in tema con la sua poetica!) in faccia al mondo comico italiano. La sua sfrenata corporalità, ai confini con il dionisiaco nietzscheaneamente inteso, è il punto d’incontro di bizzarre istanze che hanno sollevato da subito paragoni importanti e endorsement di peso, da Nino Frassica (con cui conduce il programma su Radio2 “Programmone”) a quello di un intellettuale mai banale come Lirio Abbate esercitato in questa forma: «nella nazionale dei grandi del teatro ci saranno Antonin Artaud, Bene Carmelo e Vicidomini Nicola e litigheranno tra di loro». Ed è proprio a teatro, forse il mass-media che resiste più strenuamente alla dittatura mortificante del politicamente corretto, che un’arte così sfrenata può esprimersi al massimo grado.

Lo spettacolo “Veni Vici Domini”, compendio e intermezzo tra il precedente “Scapezzo” e il futuro “Fauno” è andato in scena al Teatro Vascello di Roma il 29 Maggio in una sola escursione senza repliche che ha registrato un tutto esaurito impensabile per un’arena d’avanguardia quasi nascosta nel quartiere Monteverde Vecchio di Roma. Il comico amalfitano, in un one man show che della vetusta maniera conserva solo la solitaria presenza sul palco del suo alter-ego “Zincaro”, distilla i pezzi forti del suo repertorio precedentemente andati in onda in trasmissioni tv come lo “Stracult” di Marco Giusti e “Colorado Cafè” (sic!). Anche se alcuni pezzi sono facilmente rintracciabili su Youtube e per i fan più accalorati l’effetto novità viene scemando nel corso dello spettacolo, ciò che risalta nella dimensione teatrale è la straordinaria prossemica anarcoide di Vicidomini. A volte si ha il rimpianto che di fronte a un personaggio così debordante la scrittura delle battute non sempre vada di pari passo: come se l’autore verbale delle gag non riuscisse a tenere il passo dell’attore che li interpreta sul palco.

Il comico napoletano ha conservato una presenza famelica, un corpo che sembra davvero provenire dalle cantine degli esordi e che brama mostrarsi nudo, fetente, intriso d’umori campagnoli. Contro il buongusto parruccone egli esibisce la sua assurda passione per le vecchiette, una sorta di eros eroico nell’epoca in cui quasi tutti sono followers di modelle mozzafiato su Instagram. In quest’ottica di recupero del boccaccesco popolare facilmente denigrato da una borghesia avida d’imporre il suo stile di vita come unico possibile, si può situare il racconto di ricordi di paese poveri tipici del Sud dove i nonni sdentati continuano a soffiare consigli inintelligibili. Perfino lo sputo abbondantemente elargito sul palco assume un significato ribelle situandosi come performance situazionista significante quel che lo spettatore colto vuol vederci. Di bello in “Veni Vici Domini”, sorgente carsica in un fiume purtroppo a volte troppo moralistico (lo spezzone sulla religiosità della bestemmia vince facile col suo contrasto espressionista), c’è nei momenti migliori proprio la voglia di essere un inconcludente coacervo di spunti interrotti, di modelli dicotomici che mal si sposano, di atti sessuali con carriola e fotoromanzi redatti con foto perdute di gente comune. Un carro di perdenti sul quale saltare guidato dallo Zincaro perché è lui quello che puzza di più.

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