La recensione de "L'uomo che uccise Don Chisciotte", un film di Terry Gilliam. Al cinema dal 27 settembre

Recensione a cura di Mario Turco

Il “Napoleon”, di Stanley Kubrick, “Il Viaggio di G. Mastorna”, di Federico Fellini, “L’assedio di Leningrado”, di Sergio Leone. Di fronte all’impossibilità di girare il suo “Don Chisciotte”, protrattasi per oltre un ventennio, la comunità cinefila nel frattempo si consolava col fatto che Terry Gilliam sarebbe stato in ottima compagnia nella speciale classifica dei film mai divenuti pellicola. Ed invece il regista di “Brazil” è riuscito incredibilmente là dove i suoi celebri colleghi hanno fallito e dopo almeno due false partenze (il fallimento della prima, la più clamorosa, ha trovato perfino testimonianza cinematografica nel documentario “Lost in La Mancha” del 2002) è riuscito a far uscire nelle sale “L’uomo che uccise Don Chisciotte”, nei cinema italiani dal 27 settembre distribuito da M2 Pictures.

 
Di fronte a un film che ha alle spalle quello che è diventato probabilmente il travaglio produttivo più celebre della settima arte tutte le reazioni della stampa, a torto o a ragione, si sono fatte influenzare da essa. Non c’è infatti disamina che ad un certo punto non stabilisca una correlazione diretta tra il risultato artistico dell’opera e la sua difficile genesi. Ecco, lasciate perdere quelle elucubrazioni foriere sicuramente di ottimi spunti di critica ma sterili da un punto di vista di merito, bisogna rivolgersi al film e soprattutto al regista. C’era innanzitutto il fondato timore che probabilmente “L’uomo che uccise Don Chisciotte”, se fosse uscito negli anni Novanta, dopo la sbornia grottesca e la maturità artistica di “Paura e delirio a Las Vegas”, sarebbe stato molto diverso da oggi e dal ripiegamento che Gilliam ha avuto nei suoi ultimi film, da “Tideland” in poi. La natura stessa del progetto, una rivisitazione moderna del Don Chisciotte di Miguel Cervantes ambientata ai giorni nostri, nascondeva in nuce possibilità di meta-cinema e riscatto personale, che rischiavano di minare la stabilità del film. Ed invece “L’uomo che uccise Don Chisciotte” sorprende ancora una volta e conferma come Gilliam sia artista vero, non inquadrabile in letture aprioristiche. 

Il suo ultimo film fa naturalmente cenno alle famose vicende sin dall’apertura con la scritta sui titoli di testa "And now… 25 years in the making…and unmaking”, per arrivare fino al protagonista Toby Grosini, omaggio plateale allo sceneggiatore e amico di lunga data Tony Grosini, al suo fianco fin dalla prima ideazione del film. Ma quello che poteva diventare influsso venefico si trasforma invece in buon incentivo arricchendo ancor di più gli incastri tra realtà, cinema, letteratura e autobiografia. Tutta la prima ora del film riesce a tenere con misura questa enorme materia narrativa, misura ancor più stranamente accorta in un regista spesso eccessivo e venerato come Gilliam. Anche l’influenza del “Don Chisciotte” di Cervantes è presente senza che essa strabordi, con riferimenti puntuali sia per quanto riguarda l’immaginario (la lotta contro i mulini, la locanda scambiata per un castello) sia che letterari (l’avventura che il cavaliere dalla triste figura si sente nelle ossa, le gag con Sancho/Grisoni). Perfino il budget che nel corso degli anni si è fatto sempre più esiguo non danneggia molto l’apparato visivo del film. Fino a quando Gilliam fa muovere i personaggi all’interno della struttura picaresca originaria il film ne guadagna, riuscendo a far ridere di gusto come al regista statunitense non capitava da anni. 

È pero nella seconda parte de “L’uomo che uccise Don Chisciotte”, quando il regista si intestardisce col voler dare chiusura alla sotto-storia romantica tra Toby (interpretato da un Adam Driver che è una vera sorpresa, a suo agio col fisico e la faccia scombiccherati che si trova, nei panni bizzarri di un personaggio salvatosi dalle faccette di Johnny Depp, attore destinatario del primo trattamento) e Angelica. I 45 minuti finali del film sfuggono difatti dalla mano dell’autore che si lascia andare a barocchismi registici come gli onnipresenti grandangoli grazie a una trovata narrativa banale (la recita voluta dal magnate russo della vodka), scritta solo per dar sfogo alla baraonda di scenografie e costumi. La morte di Javier, credutosi per anni il vero Don Chisciotte, e la trasmissione di quella follia al finto Sancho, che partito come arrogante regista di spot pubblicitari dopo quegli eventi si trova anch’egli a lottare contro immaginari giganti, è la chiusa però perfetta di un film volutamente imperfetto. Gilliam ha dimostrato di essere ancora un autore fecondo e speriamo che la minaccia di chiudere la sua carriera cinematografica con questo film sia solo dovuta alla stanchezza di terminare un film così difficile. Perché, mutuando la scritta che compare all’interno del film, “Quixote-Gilliam vive”!

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