La recensione del nuovo spettacolo di Michele Placido "Sei personaggi in cerca d'autore", in scena al Teatro Quirino fino al 2 dicembre

Recensione a cura di Mario Turco

Testo cardine del teatro europeo che aprì le porte al fecondo filone del meta-teatro “Sei personaggi in cerca d’autore”, di Luigi Pirandello a distanza di quasi cento anni dalla sua prima apparizione al teatro Valle nel 1921 (contestato invero dalle celebri urla di “Al manicomio! Al manicomio!”) per la regia dell’ attore-regista pugliese Michele Placido al Teatro Quirino di Roma fino al 2 Dicembre. L’occasione per un confronto con un classico da tutti conosciuto ma da pochi realmente visto, tutt’al più letto a scuola grazie a quell’eredità pirandelliana che fortunatamente risulta essere un punto focale del nostro sistema scolastico, fa riflettere sul portato ancora attuale delle elucubrazioni dello scrittore agrigentino. Placido dal canto suo è alla terza regia tratta da un suo testo dopo “Così è se vi pare” e “L’uomo dal fiore in bocca” e data la confidenza con l’opera del premio Nobel può quindi permettersi un dialogo maggiormente libero, non necessariamente incline a una passiva messa in scena.

Questa versione de “Sei personaggi in cerca d’autore” riscrive infatti quasi tutta la prima parte: la compagnia di attori non sta recitando il precedente lavoro di Pirandello “Il giuoco delle parti” (la parola giuoco viene però canzonata da una delle attrici, in un gustoso rimando che sa d’affettuoso omaggio) ma un più contemporaneo testo incentrato contro la violenza sulle donne. Pur perdendo la genialità dell’interscambio originale la scelta si rivela portatrice di una modernità necessaria a svecchiare un testo già di suo molto più letterario che teatrale, difficile da portare in scena per via delle sue acute riflessioni sulla natura fittizia-reale dei personaggi teatrali. Non che Placido rinunci completamente all’intellettualismo dell’opera dato che è egli stesso, nella figura del Padre, a declamare l’importante monologo sulla superiorità del personaggio sull’autore: “Chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può ridersi anche della morte. Non muore più! Morrà l'uomo, lo scrittore, strumento della creazione; la creatura non muore più!”. La leggerezza di questa prima parte viene aiutata anche dalla compagnia di attori siciliani che marcano le battute con divertenti inflessioni catanesi. Un po’ a sproposito invece la scelta di caratterizzare uno di essi come il solito burino romanesco, fin troppo popolaresco e dalle facili battute di taglio televisivo. 

È con l’ingresso dei funerei sei personaggi che l’opera entra però nel vivo quando interrompendo le prove della compagnia chiedono un autore che rappresenti il loro dramma. All’iniziale allegrezza subentra una pesantezza di toni dettata dalla terribile storia che la Famiglia disfunzionale nasconde dentro la sua essenza finzionale. Un dramma borghese recitato con alto senso tragico, in primo luogo da Dajana Roncione che mantiene costante la tensione con una performance fin troppo vibrante che non concede requie né al Padre (giustamente) né allo spettatore maschile con una chiamata in correità che non perdona all’uomo quel “male a fin di bene” troppo spesso assurto a giustificazione per le peggiori violenze fisiche e verbali. Un plauso va di converso alla trattenuta recitazione di Michele Placido, gonfia di non detti e d’un impossibile catarsi per un amore sbagliato a cui cerca comunque una soluzione che salvaguardi il benessere della sua Famiglia. Che Pirandello abbia esorcizzato la propria vicenda personale o quanto meno ne abbia esasperato gli indubbi punti di contatto nella figura del Padre spiega la presenza di un carsico senso di colpa che l’attore rende benissimo sulla scena con una gestualità carica e al contempo un tono di voce dimesso che non esplode mai nonostante i feroci alterchi con la Figliastra e il Figlio. 

I sei personaggi che cercavano un autore lo trovano proprio in Michele Placido che ne rende con partecipazione la sofferenza caricandola di gesti estremi come nel caso dell’urlo finale della Madre a cui Guia Jelo presta il corpo minuto da donna siciliana pronta a tutto pur di non vedere l’ombra incestuosa che la sovrasta. Questa versione de “Sei personaggi in cerca d’autore” è un atto unico lungo centodieci minuti che non rinuncia alla verbosità del testo e che pur non cedendo allo stravolgimento sa reinterpretarlo in chiave più vicina ai nostri tempi. Avrebbe forse potuto osare qualche innovazione in più ma la Famiglia, come sempre in Sicilia, viene prima di tutto.

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