La recensione de "Non ci resta che il crimine", di Massimiliano Bruno. Al cinema dal 10 gennaio

Recensione a cura di Mario Turco

È una battaglia aperta da anni quella che intercorre tra la critica nostrana e la cinematografia italiana sullo stato di salute di quest’ultima. In particolare i De Profundis sulla commedia, genere che contrassegna la gran parte della nostra produzione e in particolare quella con il budget più consistente, seguono quasi meccanicamente ogni uscita di questo tipo. “Non ci resta che il crimine”, di Massimiliano Bruno che arriva nelle sale dal 10 Gennaio, è un tassello esemplificativo di questa lotta che, addolora constatarlo ancora una volta, ha un solo perdente: il cinema del Belpaese. Come non può la critica listarsi a lutto se perfino le migliori penne di quella che, come sempre troppo entusiasticamente e frettolosamente, era stata soprannominata la rinascita della commedia all’italiana sfornano un film come questo?

Non ci resta che il crimine” è un’operazione che, pur in un genere furbescamente auto-referenziale come quello dei film del periodo natalizio, riesce a raggiungere l’apice della paraculaggine. Tutte ma proprio tutte le scelte di scrittura toccano rassicuranti corde esplorate da altri in passato sperando che questo mischione porti a qualcosa di nuovo. Solo che lo fa in un maniera così lasca e approssimativa che la firma della sceneggiatura ad opera di quattro nomi importanti della nostra scena nazionale (Andrea Bassi, il Massimiliano Bruno di “Nessuno mi può giudicare”, il fumettista Menotti e Nicola Guaglianone autori dello script de “Lo chiamavano Jeeg Robot”) fa dubitare del fatto che le mani impegnate siano state veramente otto.

L’idea principale omaggiata sin dal titolo al “Non ci resta che piangere” di Massimo Troisi è quella di far viaggiare nel tempo e più precisamente nella Roma del 1982, attraverso un improvvido portale Einsten-Rosen materializzatosi nel retrobottega di un bar, tre spiantati romani che nel 2018 sbarcano il lunario con un TUR (e quando già il trailer proponeva questa gag basica sull’errore di traduzione veniva da alzare gli occhi al cielo) nei luoghi che hanno visto protagonista la violenta Banda della Magliana. E questo è il primo doppio ammiccamento sia alla famosa gita nelle epoche storiche di Troisi/Benigni sia al revival che ha visto protagonisti i criminali capitolini in tanti film e serie tv. 

Altra scelta compiuta con più di un occhio alla contabilità degli incassi è quella di far interpretare i tre protagonisti a tre attori a cui viene solo chiesto di fare ciò che li ha resi famosi agli occhi del pubblico meno esigente: le maschere comiche. Insomma, Alessandro Gassman recita nei panni di Alessandro Gassman, Marco Giallini fa Marco Giallini e Gianmarco Tognazzi è irresistibile nei panni di Gianmarco Tognazzi. Il regista Massimiliano Bruno traccia infatti pochissime coordinate dei personaggi come se gli importasse arrivare subito al nocciolo del film: le risate. E se almeno le mascelle venissero coinvolte anche in esigua parte si potrebbe dar conto di questa volontà. Soltanto che “Non ci resta che il crimine” non fa ridere mai, ma proprio mai, tutto preso dall’equivoco di credere che basti mettere abbondanti dosi di romanesco borgataro per riuscirci. Qui l’errore nasce dal celeberrimo “M’hanno rimasto solo” pronunciato da Vittorio Gassman nel finale de “I soliti ignoti”, che da allora in poi è stato completamente decontestualizzato e ha dato la stura agli abusi degli ultimi cinquant’anni. Ne è sintomo l’espressione popolaresca più volte usata nel film “fare soldi con la pala”, pronunciata come fosse un totem comico a cui piegarsi in due per il divertimento per il solo fatto di venir usata alla presenza di parlanti più colti. Il film di Bruno insiste esclusivamente nella rappresentazione romano-centrica del nostro cinema provando solo in un paio di occasioni qualche sortita più libera. 

Alcune gag di buon non-sense all’interno della rapina in banca fanno dispiacere per il mancato indirizzo verso questa direzione meno castrante. Tutto il resto, si diceva prima, è di una sciatteria quasi impensabile per un film del 2018: i paradossi temporali alla “Ritorno al futuro” accennati grossolanamente e senza inventiva, la rappresentazione sessista dell’ennesima “prostituta dal cuore d’oro” interpretata da Ilenia Pastorelli, la santificazione del signor “Renatino” de Pedis, le scene dei festeggiamenti per il percorso mondiale dell’Italia girate in due minuti al grido di “Buona la prima” dove alcune comparse esultano spaesate e con la credibilità di una fiction. Se questo è lo stato della commedia italiana non bastano nemmeno più i De Profundis: rendiamo onore al morto, spargiamo le ceneri in mare e continuiamo la nostra vita.

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