La recensione dello spettacolo “Comunque”, di e con Giorgia Mazzucato

Recensione a cura di Mario Turco


Se Silvio D'Amico scrivesse oggi questa recensione comincerebbe con l'affermare, prima di tutto (ma anche dopo tutto, in mezzo al tutto, a lato del tutto, in fronte te la do una capocciata se continui ancora): “Cazzo, quanto sono longevo!”. Risentendo ancora degli effetti linguistici, semantici e comici dello spettacolo parleremo sulla falsariga del suo stile di “Comunque”, di e con Giorgia Mazzucato andato in scena al Teatro Studio Uno di Roma dal 24 al 27 Ottobre. E per farlo prenderemo a prestito senza restituire il maltolto ma tolto il prestito ricominceremo a prendere per finalmente, si spera, far partire questo scritto. Basato su nove testi di Alessandro Bergonzoni (chi lo sta cercando su Google può smettere di leggere, Google dico, e cominciare a googlare qualche suo libro nelle librerie) l'attrice e regista teatrale classe 90, stile 70 e performance 85, da vita a una “bergonziade” nuova che rielabora il materiale originale del grande comico italiano con una storia inedita scritta di suo pugno e poi, per ovvie ragioni anatomiche/grafiche, riscritta successivamente al computer. 


Allieva di Marco Baliani e fondatrice di una scuola, che è anche centro di produzione teatrale, “Shakespeare's Box”, la giovane artista ha un curriculum eterogeneo che fa dell'ibridazione tra i vari media la sua principale ragion d'essere. Si spiega anche così, per i petulanti che vogliono sempre capire tutto, la nascita di “Comunque”, il racconto surreale di Desirèe che per vivere e sopravvivere ad una delusione amorosa si trova a far la ladra con ovvi esiti disastrosi. L'amalgama di alcuni dei più famosi pezzi bergonzoniani compiuta con gioioso e ricercato non-sense riesce a stupire sia i lettori dei testi originali, sia chi vergine arrivava e gravido se ne andava grazie ad una concezione artistica per orecchie che si rifa spudoratamente alla matrice cattolica, sia la signora del piano di sopra del Teatro Studio Uno che avesse mai offerto un bicchiere di vino nonostante abbia origliato l'alcolica storia del teatro-off di Roma per anni. Il monologo di Giorgia Mazzucato approfitta della scarna messa in scena per sparare, fortunatamente non a salve, una ridda di battute quasi sempre geniali che feriscono a morte il senso del convenzionale e della struttura euclidea della realtà con cui di norma ci rapportiamo con un'opera artistica. Lo ha sempre fatto Bergonzoni, è vero, ma questo ri-attraversamento della sua opera genera una nuova contestualizzazione che non è mai passiva, ma potremmo dire passiva-aggressiva: attacca le forme testuali da cui trae spunto per nascondere ancora meglio il debito che nutre nei loro confronti. 


Così “Comunque” non ha mai paura di deragliare, ad esempio, partendo da un singolo gioco linguistico e continuato fino all'eccesso, allo sfinimento, al paradosso dell'osso narrativo che viene continuamente rimasticato e sputato via, spolpato dalla sua carne (leggi fabula) ed ormai oggetto solo di svago. La natura acefala del testo (ci vengono così, senza sforzo!) genera ovviamente segmenti di corpo scenico più o meno divertenti. L'elenco finale dei dieci comandamenti da rispettare in un'opera è la perfetta chiusa con l'invito ad essere “colmi di bellezza” che lascia senza fiato, anche perché nel nostro caso in un metro e settanta scarsi di bellezza ne entra pochina e s'accumula proprio sui polmoni.

LIBRI & CULTURA CONSIGLIA...