La recensione di "High Life", di Claire Denis al cinema dal 5 agosto

Recensione a cura di Mario Turco

La rilettura e l'innervamento delle proprie tematiche da parte di un femminismo finalmente deciso a prendersi tutto di classici cinematografici e, andando più in su, di interi generi della Settima Arte può, senza andare a scomodare legittime rivendicazioni di potere, essere narrativamente una rivoluzione epocale (e necessaria). La dispepsia tematica a cui Hollywood è giunta in un altro dei suoi sempre più brevi cicli creativi adesso sembra voler sbloccare la sua congestione, come successe per la New Hollywood degli anni '70, consegnando le redini dell'industria ad una generazione di autrici che vogliono usare la propria forte componente autoriale per rimodellare a proprio piacimento le sovrastrutture da cui sono state sempre escluse ma che conoscono benissimo per averle subite per decenni sulle loro pelli e sulle loro retine. “High Life”, di Claire Denis, pellicola presentata al Toronto International Film Festival il 9 settembre 2018 ma che uscirà nelle sale italiane dal 06 Agosto 2020 grazie alla distribuzione dell'infaticabile Movies Inspired, è la perfetta summa della tesi esplicitata poc'anzi. 


Primo film, dopo 13 lungometraggi nella propria lingua, in inglese dell'autrice francese che nel corso della sua lunga carriera ha con fierezza mantenuto il suo sguardo indipendente, “High Life” non rappresenta il cedimento di Ulisse al canto delle sirene dato che questo progetto è un vecchio tarlo a cui ha lavorato per più di 15 anni con il suo storico sceneggiatore Jean-Pol Fargeau. Compiendo un'operazione per certi versi speculare, anche se qui in maniera più accomodante, al suo celebre “Cannibal Love” del 2001, Denis scompagina forme e aspettative della fantascienza cerebrale a cui il film può essere ascritto attraverso i temi a lei cari: la sessualità, l'inintelligibilità di alcune sequenze e la precarietà dei rapporti umani. “High Life” si apre con il dialogo interstellare tra Monte, interpretato con epidermica glacialità da quell'oggetto alieno che è diventato, per nostra fortuna cinematografica, Robert Pattinson, ed una neonata i cui tartagliamenti monosillabici trovano dubbia insonorizzazione da una macchina che ne esplica ossessivamente il DADADADADADA. Il ragazzo è infatti impegnato, mentre le parla col microfono della tuta, nella riparazione di un pezzo esterno all'astronave con cui deve terminare la difficile missione che ha decimato l'equipaggio. Lo vediamo inizialmente diviso tra compiti di cura come il significativo insegnamento della parola TABù alla poppante (con l'argomentazione perfino della relatività del termine tra lei e lui, tra il figlio e il padre, tra l'infante e l'adulto, tra il debole e il forte e altre dicotomie relazionali) e il disfacimento dei cadaveri nello spazio nella scena che segna iconicamente i titoli di testa. 


“High Life” dopo questo prologo procede per analessi e con la voce di Monte che si fa scarna guida racconta il progressivo fallimento della Missione Penrose, incaricata di raccogliere l'energia rotante di un piccolo buco nero posto oltre la galassia per fornire energia quasi illimitata alla Terra. Pur con un budget di solo 8 milioni di dollari, il film è molto preciso dal visto scientifico dato che Claire Denis si è affidata alla consulenza dell’astrofisico Aurélien Barrau. Allo stesso tempo “High Life” evita le derive della cosiddetta sci-fi porn facendo della precisione astronomica solo il contesto dove far agire i personaggi. Nel cosmo ripreso dalla regista infatti il microcosmo sociale dei membri dell'equipaggio si perpetua con gli indefettibili istinti ferali della Terra. E non solo perché gli astronauti sono criminali che hanno intrapreso coscientemente una missione suicida ma perché il sesso è una delle pulsioni più violente dell'uomo. Si spiega così la necessità di una Fuck Box asetticamente inserita dagli ingegneri nell'astronave per far sfogare gli inevitabili ardori di un corpo che anche a milioni di anni luce conserva le proprie urgenze fisiologiche. Denis a più riprese esplica questi assunti con inquadrature che indugiano sul latte materno colante sulle cosce o sui liquidi che la stanza del sesso espelle dopo ogni seduta. E se il film, avvalendosi anche della diversa concezione del Tempo in cui si incorre quando si cerca di superare i limiti dell'universo, si compiace di una struttura non cronologica (evitando inoltre di fornire perfino coordinate razionalizzanti) è perché punta la sua attrattiva sulla rapsodia degli insoliti accostamenti visivi/cerebrali. La fantascienza spesso non occupandosi del sociale ha puntato verso l'idealismo ma con “High Life” anche l'alto viene fatto collidere con il basso, in uno straniante ibrido metatestuale amplificato dalle oscure e ipnotiche musiche di Stuart Staples. In fondo questa astronave della missione Penrose non è che una riproposizione iper-tecnologica di un carcere e ne replica i meccanismi coercitivi. Anche nello spazio nessuno può punire i sorveglianti.

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