La recensione dello spettacolo "Morte di un commesso viaggiatore", di Arthur Miller al Teatro Quirino di Roma fino al 6 Marzo per la regia di Leo Muscato

Recensione a cura di Mario Turco

“Agli inizi degli anni 2000 la rivista Time elencò i dieci lavori teatrali più significativi del Novecento. Il primo posto assoluto toccò a I sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello. Il secondo andò a Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller: senza alcun dubbio la Grande Commedia Americana, quella che gli americani sentono come più autenticamente loro”, recita il volantino dello spettacolo che stringiamo in mano. Anno 2022: “Morte di un commesso viaggiatore”, Premio Pulitzer per la drammaturgia nel 1949, va in scena al Teatro Quirino di Roma fino al 06 Marzo per la regia di Leo Muscato e lascia interdetti: per una volta si può concordare col giudizio di una rivista che sin dalla sua nascita ha fatto del rilascio di classifiche e canoni (sempre occidentali) la sua più famosa ragion d’essere. Perché nei due atti di circa un’ora e dieci l’uno, separati da un troppo lungo intervallo di circa venti minuti, il dramma messo in piedi da Goldenart Production in coproduzione con Teatro Stabile del Veneto e Teatro Stabile Bolzano, dimostra che la scrittura milleriana possiede una trasversalità eccezionale che rende le meschine vicende di un uomo qualunque, mediocre venditore itinerante di stoffe, lo specchio incrinato in cui l’American Dream è violentemente costretto a guardarsi. Con un consapevole eccesso di acrimonia che ci è probabilmente dettato dall’aver svolto in passato una professione simile, possiamo affermare che i sogni di Willy Loman sono tutti sbagliati perché nascono (e muoiono) all’interno di quella Grande Illusione che è la dignità del lavoro: solo esso consentirebbe all’uomo l’hobbesiana scalata sociale così connaturata al suo mai domato istinto animale. 


Il commesso viaggiatore protagonista dell’opera è infatti, per usare le parole del figlio Biffy, un “ipocrita” commerciante di sé stesso, più concentrato sull’immagine – i patetici taroccamenti di vendite all’amata moglie, il tentativo di mantenere un lavoro anche se non pagato – che alla salvaguardia sentimentale della sua famiglia. “Lavori tutta la vita per pagare le rate del mutuo, e quando la casa è finalmente tua, non c’è più nessuno che ci vive”, ammette da subito amaramente il 63enne Loman, interpretato da un Michele Placido che bada fin troppo a mantenere la distanza dal personaggio accentuandone la tristezza ma mantenendo a bada gli isterismi. Questa versione de “Morte di un commesso viaggiatore” si mantiene comunque molto fedele al testo originale mischiando continuamente verità e allucinazione e riproponendone la moderna struttura che fa apparire sulla scena senza soluzione di continuità sia lo svolgersi degli eventi presenti che quelli passati – uno in particolare, annunciato da piccoli segnali e fondamentale per capire l’eterna lotta tra padre e primogenito – che soprattutto i deliri della mente del protagonista, pericolosamente perseguitato dai fantasmi di opportunità mancate e deliri di senile rivincita. Le scene di Andrea Belli enfatizzano fisicamente la sordidezza di casa Logan facendo del salotto un marcio e rancido stanzone, molto lontano da quel decoro che molto più probabilmente una famiglia middle-class avrebbe invece messo in atto nella realtà. D’altronde, il vecchio capofamiglia sin dalla giovanile scelta di immettersi nel commercio aveva dimostrato di farsi circuire dalle apparenze dato che s’era lasciato abbagliare dalla facilità con cui un collega ottantenne svolgeva presumibilmente un mestiere invero faticosissimo come il commesso viaggiatore: con le ciabatte ai piedi, il suo nume tutelare sembrava piazzare i suoi prodotti ai clienti grazie a poche telefonate dalla sua camera d’albergo ottenendo perfino il loro rispetto. 


Facendo di quella ‘visione’ una reliquia, Willy Loman intraprende la professione del rappresentante cercando il più possibile di piacere a tutti ed inculcando la sua filosofia ai suoi due figli maschi, Biffy ed Happy. È a loro, come spesso accade nelle famiglie statunitensi, che egli delegherà le proprie smanie di successo facendo soprattutto del primo, il più grande, il bersaglio di smodate aspettative. La pièce riesce a mantenersi in equilibrio tra la perdurante lettura politica degli eventi – il fallimento come destino nella vita di quasi tutti gli interpreti più fedeli della pratica capitalistica – e l’empatia personale verso i personaggi – l’affetto, nonostante tutto, dei due giovani verso il genitore. Il martirio di Willy Loman è quello dell’individuo del Novecento verso l’oramai insostenibile modo di produzione del secolo. Finite le rate per il frigorifero, l’aspirapolvere, il mutuo e soprattutto pagata l’ultima rata dell’assicurazione sulla vita, il vecchio venditore di tessuti deciderà di suicidarsi proprio su quell’automobile che è stata il suo cavallo di battaglia nel mestiere di commesso viaggiatore, per dare alla sua famiglia quel successo economico che non è stato in grado di assicurare loro durante la vita. Solo la moglie, interpretata da un’intensa Alvia Reale, al funerale finale non riuscirà a capacitarsi della necrofilia del denaro. Si tratta dell’ultima e più straziante sconfitta per il marito.

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