La recensione di "Un anno difficile", di Olivier Nakache e Éric Toledano, in uscita nelle sale dal 30 Novembre distribuito da I wonder Pictures

Recensione a cura di Mario Turco

L'eco-ansia è qualcosa di più di una parola sparata in prima pagina da un giornale per prendere in giro i blocchi stradali messi in atto dai vari attivisti ambientali. La paura per la distruzione inesorabile di questa pianeta, a cui l'imminente COOP28 organizzata dall'Onu a Dubai, - con la sua pista da sci voluta nel deserto, non certo l'esempio migliore per le politiche di mitigamento a cui gli Stati saranno chiamati in quell'occasione - è qualcosa che le nuove generazioni sperimentano e sperimenteranno in maniera collettiva in maniera sempre più totalizzante. Il cinema allora, come formidabile macchina dell'immaginario che ancora è, comincia a rapportarsi in maniera sistematica con questi squarci del tessuto sociale. Non più quindi soltanto catastrofistici escapismi o moniti in salsa sci-fi ma racconti quotidiani di lotte, terrori e pavidi riformismi dei contemporanei di Greta Thunberg. 


In "Un anno difficile", di Olivier Nakache e Éric Toledano, in uscita nelle sale dal 30 Novembre distribuito da I wonder Pictures dopo il passaggio al Torino Film Festival, queste porzioni sempre più ampie di realtà diventano forse per la prima volta la base di una narrazione cinematografica aliena dal livello ideologico ed inscritta invece nel presente. Assenti dai grandi schermi da 4 anni, gli autori del formidabile successo di "Quasi amici" ma anche di "Samba" e "C'est la vie - Prendila come viene" qui provano infatti a rinverdire la formula del loro successo applicando a un tema di strettissima attualità il loro trattamento fatto di cinismo e buoni sentimenti. Albert (il bravissimo Pio Marmaï) lavora ufficialmente come assistente aeroportuale al Charles de Gaulle di Parigi ma arrotonda di molto il suo stipendio rubando profumi e igienizzanti che i clienti non possono portare in aereo, poiché eccedenti il limite imposto, per rivenderli sottobanco proprio nei parcheggi della struttura. Il giovane uomo infatti è sull’orlo del fallimento, sia personale che soprattutto economico: è sovraindebitato con istituzioni bancarie, amici, familiari e persino colleghi ai quali è costretto a rendere quasi interamente gli illeciti guadagni. Ma un giorno incontra per caso Henri Tomasi (Mathieu Amalric, tenerissimo ma sprecato in un bel ruolo che avrebbe meritato maggior spazio), strano volontario in un’associazione che si occupa di presentare alla Banca di Francia le istanze di cancellazione del debito dei suoi assistiti. Provando a dare una svolta alla propria vita per avere le credenziali giuste per questa salvifica passata di mano, Albert nel frattempo conosce e stringe amicizia con un altro spiantato come lui, Bruno (Jonathan Cohen). I due avventurieri allora, entrati in un centro sociale per lucrare una birra gratis, si fanno cooptare prima controvoglia poi in maniera sempre più convinta da un’associazione ambientalista in cui si distingue per baldanza ecologista la bella Valentine (Noémie Merlant, che mette a disposizione di una commediola in fondo innocua la sua impareggiabile grazie e la sua insospettabile bravura comica). 


Un anno difficile ha un inizio fulminante, purtroppo un colpo di genio che rimane isolato. Il montaggio sui titoli di testa dei vari presidenti francesi di epoche diverse che ripetono che quello passato è stato per il Paese “un anno difficile” allude infatti alla perenne risoluzione emergenziale con cui è stato affrontato fino ad oggi il disastro climatico. Le varie azioni messe in atto da Pulcino, Lexotan e Cactus, i nomi in codici dei tre protagonisti della pellicola (Nakache e Toledano si abbandonano purtroppo con fin troppo generosità a questo tipo di umorismo davvero sciocco) hanno il pregio di ricalcare quelle che mediaticamente anche gli spettatori più anziani hanno imparato a conoscere: picchetti, azioni eclatanti contro monumenti, sabotaggi contro festività capitalistiche come il Black Friday. Ma l’attenzione dei due registi verso questi attivisti si esaurisce in queste poche scene di rappresaglia che, tra l’altro, hanno anche il difetto di rincorrere passivamente l’iconografia del reale. Maggiore riuscita ha invece la descrizione delle sfortune dei due consumisti compulsivi Bruno e Albert, uomini medi ma non mediocri taglieggiati dai creditori e soprattutto da un sistema economico che divora i suoi figli perché li spinge con la sua rapacità a fallire senza fornire loro nessuna rete di salvataggio. Mai come nel resto della passata filmografia dei due registi francesi, Un anno difficile sconta allora il difficile innesto di questa doppia componente sociale con una struttura comica biecamente classica in cui la solita girandola di equivoci, sottintesi, redenzione mancata ed ottenuta non riesce a nascondere la stordente vacuità di gag e battute. Se nel 2023 è più importante ancora prendere in giro una donna brutta che si fa chiamare Sirena, altro gioco linguistico degno di un cinepanettone, piuttosto che fare a pezzi con l’ironia e il sarcasmo proprio il movimento ecologista, vuol dire che il cinema commerciale francese non ha capito nulla dell’aumento insostenibile della temperatura.

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