Recensione a cura di Mario Turco
Esiste un innegabile iato tra le emozioni che le Guerre Stellari procuravano una volta e quelle suscitate adesso. Fino a qualche anno fa quando sentivi sviscerare il fenomeno Star Wars nei vari media ti reputavi, nonostante il merchandising t'avesse propinato perfino uno spazzolino elettrico a forma di spada-laser, membro di una comunità di fieramente non-eletti, sacerdote laico di un culto irrigidito in
rituali sacri che rispettavi in maniera così feroce da giungere ad eccessi sovra-interpretativi (storia vera) del tipo che ad ogni agnizione paterna, anche quelle precedenti la saga di Lucas, sbottavi "Hanno copiato da Guerre Stellari". Adesso quanto senti quelle famose note perfino negli spot delle auto dei ricchi ti sembra di essere una pecora che dopo la dolorosa tosatura sta già pensando all'inevitabilità della prossima di lì a breve. Prima che ovvia e scontata operazione commerciale il cui crono-programma non lascia spiragli di fuga si può sospettare che la relazione tra noi fan della prima ora e i produttori di queste "Star Wars anthology" sia basata su un rapporto sadomasochistico consapevole: noi pronti a ricevere il dolore dell'insoddisfazione di un film mediocre, loro perversamente abili nel fornirci un prodotto di desolante banalità.
Esiste un innegabile iato tra le emozioni che le Guerre Stellari procuravano una volta e quelle suscitate adesso. Fino a qualche anno fa quando sentivi sviscerare il fenomeno Star Wars nei vari media ti reputavi, nonostante il merchandising t'avesse propinato perfino uno spazzolino elettrico a forma di spada-laser, membro di una comunità di fieramente non-eletti, sacerdote laico di un culto irrigidito in
rituali sacri che rispettavi in maniera così feroce da giungere ad eccessi sovra-interpretativi (storia vera) del tipo che ad ogni agnizione paterna, anche quelle precedenti la saga di Lucas, sbottavi "Hanno copiato da Guerre Stellari". Adesso quanto senti quelle famose note perfino negli spot delle auto dei ricchi ti sembra di essere una pecora che dopo la dolorosa tosatura sta già pensando all'inevitabilità della prossima di lì a breve. Prima che ovvia e scontata operazione commerciale il cui crono-programma non lascia spiragli di fuga si può sospettare che la relazione tra noi fan della prima ora e i produttori di queste "Star Wars anthology" sia basata su un rapporto sadomasochistico consapevole: noi pronti a ricevere il dolore dell'insoddisfazione di un film mediocre, loro perversamente abili nel fornirci un prodotto di desolante banalità.
"Solo: A star wars Story" si situa esattamente a metà di questa malsana relazione. In due ore e ventitré minuti di pellicola il film di Ron Howard, richiamato in fretta e furia dopo il licenziamento dei registi Phil Lord e Chris Miller a metà riprese, racconta tutto ma proprio tutto quello che non volevamo sapere ma che abbiamo richiesto versando i nostri soldi a mamma Disney negli altri precedenti episodi sul pilota migliore della Galassia. E quindi si va dal fan-service puro, a voler essere duri, al calligrafismo inane, a voler essere morbidi. Dopo l'obbligatoria visione sappiamo come Han è riuscito a fare la rotta di Kessel in meno di dodici parsec, sappiamo perché è così cinico e baro nella prima trilogia, sappiamo chi gli ha regalato il blaster che ha usato per sparare per primo all'alieno Greedo nella taverna di Mos Eisley. A proposito di quest'ultimo fatto la volontà della Disney di ripulire con una verniciata di politicamente corretto la celebre diatriba (rimando a Wikipedia per per chi non conoscesse la vicenda) raggiunge livelli di una comicità altissima: in "Solo: A Star Wars Story" il contrabbandiere si trova a dover sparare per primo al suo mentore che mentre sta per morire tra le sue braccia trova il tempo di confessargli che "altrimenti t'avrei ucciso io". Come se un episodio precedente molto simile avesse il potere di cancellare l'onta di uno successivo. Misteri dell'ideologia della casa di Topolino o di una teoria dell'eterno ritorno capitalisticamente travisata. Riguardo questa storia di come Han sia diventato Solo (spero che la gag del cognome nel film sia un'aberrazione SOLO italiana) le riscritture sono così palesi da poterle separare con un coltello se ne avessimo voglia. Ne sono soprattutto dimostrazione la miriade di personaggi che appaiono sullo schermo: tutti con un proprio background e uno screen-time adeguato, tutti protagonisti di un pezzo di film che per la sindrome dell'accumulo non si è avuto voglia di tagliare.
Ci sono almeno tre side-story che non vanno a finire semplicemente da nessuna parte, temporanee deviazioni dal tracciato che hanno il solo demerito di riuscire a far appannare la figura del protagonista. Questo perché "Solo: A Star Wars Story" è un film che, a parte la passiva scrittura fandom sopra esplicata, non ha nulla degli elementi caratterizzanti Star Wars. E non parliamo dell'assenza delle spade-laser o della Forza quanto di come i Tie-fighter e perfino lo stesso Millenium Falcon non abbiano nessuna peculiarità specifica ma siano semplicemente sovrapponibili con qualunque cacciabombardiere galattico o con una nave spaziale di un'altra space opera. Il ladro dal cuore d'oro già al suo primo apparire nello Star Wars del 1977 era una figura ricavata dai western del 30/40 che tanto piacevano a Lucas ma nell'arco di un solo film sapeva già creare un nuovo tipo di immaginario. Le avventure che viveva, pur con gli inevitabili rimandi ad altre narrazioni in un'epoca ipersatura, sapevano deviare da solidi binari per osare un miscuglio coraggioso. "Solo: A star Wars Story" è invece solo rimasticatura di un cibo già digerito da tempo, una roba insapore che potrebbe riuscire a dare il necessario apporto proteico a tutti, anche agli animali o peggio, ai non-fan di Star Wars.