Recensione: In questa Italia che non capisco, di Mark Twain

Titolo: In questa Italia che non capisco
Autore: Mark Twain
Editore: Mattioli 1885
Pagine: 205
Anno di pubblicazione: 2019
Prezzo copertina: 16,00 €

Recensione a cura di Mario Turco

Quando uno stereotipo col fucile incontra uno stereotipo con la pizza lo stereotipo con la pizza è morto. Per cominciare questa recensione e dare il senso del libro in un solo folgorante aforisma non si poteva che esordire con una battuta pensando che il buon Mark Twain ne avrebbe riso con noi. “In questa Italia che non capisco”, edito da Mattioli 1885 e tradotto da Livio Crescenzi rappresenta la seconda parte del libro di viaggi “The Innocents Abroad” che la sempre più arrembante casa editrice emiliana ha scelto di portare nel nostro Paese nella sua integrità pur suddivisa in queste sottosezioni tematiche. Già dal titolo si può intuire come il libro sia una selezione dei brani che parlano dell'Italia, visitata nel 1866 all'interno della pionieristica crociera turistica avvenuta col piroscafo Quaker City.


“Qualcuno potrebbe pensare che io abbia dei pregiudizi. Forse è vero. Mi vergognerei di me stesso se non li avessi”: ammette ad un certo punto Twain dando al lettore il senso della spregiudicatezza della sua scrittura. Perché se in “Finalmente Parigi” l'autore statunitense sbeffeggiava usi e costumi francesi attraverso uno stile ironicamente mordace ma mantenendosi nei limiti della presa in giro, “In questa Italia che non capisco” raggiunge picchi di ferocia altissimi. Il senso di questa crudeltà è probabilmente da ricercarsi nell'amore che egli prova per il Belpaese che da secoli fa i conti con un declino che ancora oggi appare inarrestabile. “Il Colosseo racconta la storia della grandezza e della decadenza di Roma. Non esiste al mondo un simbolo più efficace di entrambe le cose”- dirà apertamente quando si trova a visitare la Capitale del neonato Regno d'Italia. E con la lungimiranza dei grandi egli vede subito le contraddizioni di un Paese nato sulla cartina geografica ma ancora lontano dall'avere uno spirito autenticamente nazionalista. Proseguendo con la sua visione economica e materialista egli innanzitutto denuncia il contrasto tra aspirazioni alla grandezza (rimane colpito dalla qualità delle ferrovie!) e l'estrema povertà che ad ogni angolo lo attanaglia. Già a Genova, prima tappa del suo viaggio italiano, lo scrittore rimane incantato dalla raffinatezza dei palazzi signorili lasciandosi andare in descrizioni particolareggiate mentre contemporaneamente rimane allibito dai continui balordi che inseguono la sua comitiva per raccogliere e masticare i loro sigari usati. A tratti questa visione dell'uomo civile che si trova in visita in paesi sottosviluppati lo porta ad esiti degeneri come questi, dove il folklore narrativo prende il posto del resoconto obiettivo prefissatosi sin dall'inizio: “Ahimè, deformità e barbe femminili sono una faccenda fin troppo comune, in Italia, per stupirsene”. 


Eppure, come si diceva poc'anzi, il vero e proprio livore che lo assale quando si trova nelle più famose città italiane lo porta anche a piacevoli paradossi. A Venezia, ad esempio, non si capacita del fatto che le gondole, che a lui paiono orrende bare tutte uguali, abbiano il successo che tutti gli tributano. A finire sotto i suoi strali, dopo le guide turistiche dall'inglese maccheronico, sono gli stessi gondolieri che hanno l'insopportabile vizio di cantare a squarciagola con le loro brutte voci durante i maleodoranti spostamenti sulla laguna. Di Roma invece il suo credo protestante lo porta naturalmente a vedere solo gli sprechi vaticani, enumerati in maniera quasi scientifica (escluse le iperboli sull'invadenza dei preti sulla popolazione). È però soprattutto Firenze a subire inaspettatamente il rovescio più duro. Le gite sull'Arno vengono derubricate a ridicole escursioni su un fiumiciattolo senza importanza e la prodigalità d'arte spacciata per spreco di materiale tutto uguale (anche se le pagine sulle facce dei martiri nei quadri sono spassose) e perfino i Medici vengono descritti come profittatori: “Si accontentino dei Medici, a Firenze. Che li interrino pure, i Medici, e sopra vi erigano grandiosi monumenti, per testimoniare con quanta gratitudine la città era solita leccare la mano che la flagellava”. L'aneddoto più comico è però quello sull'onnipresenza, almeno a dar ascolto alle guide, delle opere di Michelangelo che Twain ridicolizza con la gag da teatrante consumato del chiedere con serietà e stolidità se perfino le mummie del museo egizio siano frutto del genio di Da Vinci. L'episodio mostra come in realtà lo scrittore statunitense abbia ben capito come sia furba e parassitaria gran parte dell'Italia visitata e come essa non faccia una gran figura nel racconto di un umorista senza barriere culturali davanti gli occhi.


L'AUTORE
Mark Twain è lo pseudonimo di Samuel Langhorne Clemens (1835-1910). Umorista, scrittore e conferenziere, Twain è considerato uno dei padri della narrativa americana. Tra i suoi numerosi capolavori, si ricordano Le avventure di Tom Sawyer (1876), Le avventure di Huckleberry Finn (1885), Un americano alla Corte di Re Artù (1889).

LIBRI & CULTURA CONSIGLIA...