Un imprevisto dono d'amore, di Vincenzo Sottile
«Troppo pessimista?» Non riesco proprio a rendermene conto. Mi chiamo Ernesto Mori e, a
quasi trentasei anni suonati, le mie idee sono ancora molto confuse. Spesso lo rimugino fra me e
me, soprattutto quando gli altri non perdono occasione per colpevolizzarmi e farmi sentire come un
esile ruscelletto, di quelli che, a malapena, arrivano a lambire gli stagni di vallate aride e
perennemente prosciugate da siccità che non perdonano e uccidono le speranze di milioni di
contadini con la morte dei loro raccolti. In fondo mi considero come loro perché mi sento come una
qualsiasi piantina di un esile raccolto che non arriva mai a dare buoni frutti. E dire che di buoni
frutti ne avrei da vendere e soprattutto da far germogliare nel cervello altrui! Non sono certo un
uomo presuntuoso ma non sopporto neanche le persone che io definirei buoniste, quelle cioè che
pendono dal giudizio altrui come se fosse oro colato e che hanno un terrore quasi patologico di
esprimere le loro opinioni.
Sto male praticamente da sempre e, benché mia moglie Vanda, i miei due splendidi suoceri
Gabriele e Letizia e il mio splendido bambino Loris non mi abbiano mai lesinato il loro amore
attraverso manifestazioni d’affetto condite in tutte le salse, la sensazione di malessere, che mi
attanaglia come una spina in gola che non va mai via e rischia di soffocarmi, persiste insidiosa e si
riacutizza proprio in occasione di queste sante festività di fine anno.
E’ come un vero e proprio torrente in piena e a nulla valgono le mie petulanti elucubrazioni
mentali dirette a sfatare il peso delle osservazioni che mi rivolgono familiari, amici e conoscenti.
Forse sono sbagliato io. In fondo, mi dico: cosa c’è di tanto squallido e ributtante nel
festeggiare il natale o nel fare i botti di Capodanno con le persone più care? Razionalmente direi
niente e non mi discosterei dalla realtà stereotipata, alla portata di tutti e accettata universalmente su
ogni mezzo di comunicazione che si rispetti. Quando non eravamo ancora sposati io e mia moglie
abbiamo anche festeggiato qualche capodanno nei locali dove si organizzano veglioni e non è che
sia stato proprio malaccio! Certo, la bolgia è infernale e il cibo, se non scadente, è alquanto
dozzinale, ma cosa si può contestare tutto ciò? In fondo è un’occasione come un’altra per buttarsi
alle spalle, almeno per qualche ora, i dispiaceri e le contrarietà che costellano l’esistenza generale
dell’intera umanità.
Niente di trascendentalmente fuori dai canoni ordinari, insomma. Ciononostante non
riuscivo ad accettare sino in fondo lo srotolarsi uniforme delle cose. Sentivo che, da qualche parte,
doveva esistere un angolino remoto nel cuore di ogni individuo dove il senso profondo di ogni
festività si potesse catturare al di là di squallidi sentimentalismi da rotocalchi rosa.
Da buon cronista dei miei sentimenti, quale mi fregiavo di essere, avevo provato ad
analizzare il senso più remoto dei miei numerosi enigmi comportamentali che, di quando in quando,
sfociavano in manifestazioni dal carattere oscuramente paranoico. Ero un buon diavolo ma pochi
riuscivano a rendersene conto al di là delle apparenze spicce.
Eppure non avevo conti da saldare con la vita che avessero un carattere così oscuramente
perverso e tale da giustificare le mie prese di posizioni ostinatamente drastiche verso alcuni riti
consumistici del festeggiare che reputavo sinistramente superficiali e grotteschi. I miei erano stati
ottimi genitori anche se mi rendevo conto che nessun essere umano meritava di essere posizionato
su un qualsivoglia piedistallo perché ognuno si trascinava appresso i traumi di scheletri invisibili
sepolti nell’armadio. Però, non potevo proprio lamentarmi. Mio padre, Learco Mori, era stato un
irreprensibile funzionario al catasto per circa quarant’anni e mia madre, Cornelia Chiaramonti,
aveva condiviso con lui il suo percorso di gioie e dolori senza grandi nubi che si evidenziassero
all’orizzonte. La classica famiglia medio-borghese senza eccessivi voli pindarici ma, nel contempo,
senza sgradevoli scossoni che ne andassero ad alterare l’equilibrio.
Avevo vissuto un’infanzia e un’adolescenza molto serene senza ricevere particolari pressioni
da parte dei miei genitori anche se, come probabilmente tutti i figli unici, troppo coccolato e
vezzeggiato. Nessun gran trauma esistenziale e un discreto curriculum negli studi. Inizialmente
diploma di ragioniere e perito commerciale. Di seguito laurea in giurisprudenza conseguita anche
con ottime votazioni.
Il dramma era però culminato di colpo quando i miei genitori erano morti in un incidente
stradale ed ero stato costretto a rimboccarmi le maniche per cercare di cucire il pranzo con la cena. I
primi tempi erano stati veramente duri ed ero sopravvissuto con qualcosa che i miei avevano messo
da parte per me, aprendo un conto corrente a mio nome con versamenti mensili di piccole quote dei
loro risparmi. Era come se, in qualche parte invisibile del loro cuore, presentissero quella tremenda
disgrazia che li avrebbe cancellati dalla faccia della terra di lì a poco. E meno male che ebbero
questa accortezza. Nel periodo di quella tremenda sciagura ero già fidanzato con la mia futura
moglie che lavorava come commessa in un negozio di scarpe molto rinomato nel centro storico
della cittadina sul litorale laziale dove risiediamo. Devo a lei e al suo tenace affetto se sono
sopravvissuto a quell’enorme ecatombe che mi era piombata sul groppone fra capo e collo e non lo
dico tanto per esagerare. Avevo una laurea ma non avevo tempo di cercare un’occupazione consona
e accettai la proposta di entrare a far parte di uno staff lavorativo che si occupava di gestire un
orfanotrofio a pochi chilometri dal centro dove viviamo. Un lavoro inusuale, direte voi!
Specialmente per uno che aveva orientato le sue mire a tutt’altri sbocchi di carattere professionale,
ma la fame è una brutta bestia e non vi auguro mai di sperimentarla. Tramite un collega di mia
moglie fui messo in contatto con la direttrice di questo orfanotrofio e, dopo alcuni colloqui
preliminari, venni selezionato per lavorarci dentro. Si trattava di occuparsi di questi poveri bambini
e i turni lavorativi erano anche abbastanza pesanti, ma era pur sempre un lavoro e retribuito in
maniera più che soddisfacente. Non esisteva, insomma, un vero e proprio mansionario. Tranne la
funzione di insegnare, che era delegata a maestri specializzati, durante i nostri turni dovevamo
espletare funzioni da sorveglianti tuttofare ed essere in grado di adempiere alle funzioni più
disparate come, per esempio, piccole riparazioni di varia natura o controllare l’operato dei cuochi in
cucina. Il budget dell’istituto per le spese era sempre molto ridotto o almeno così ci faceva sapere la
direttrice.
Col tempo iniziai ad inquadrare maggiormente quel reticolato intricato di bugie
sapientemente intessute o di mezze verità ma, benché mi sentissi rivoltare lo stomaco al pensiero di
tante storture che visualizzavo quotidianamente, mi sforzavo di chiudere gli occhi. In alcuni casi fu
veramente rivoltante vedere come alcuni bambini venissero puniti in maniera crudele per delle
inezie e picchiati con tutta l’efferatezza possibile. Alcuni fra i sorveglianti erano completamenti
succubi della direttrice mentre altri, come me, chiudevano gli occhi perché non era facile trovare un
altro lavoro e lo stipendio a fine mese era troppo prezioso. Spesso andavo a casa e mi sfogavo con
mia moglie che, da quell’angelo che è, mi esortava a portare pazienza.
Col trascorrere del tempo, poi, ci feci il callo. È triste a dirsi ma è così. Nel frattempo era
nato Loris, il nostro unico figlio e la perla dei nostri occhi, la luce per la quale si è disposti a
scendere quasi in fondo a ogni abisso. Gli vogliamo tutti un bene matto e i genitori di Vanda lo
viziano anche troppo ma, d’altronde, è il loro unico nipote. Almeno fino ad ora, perché con mia
moglie stiamo pensando seriamente di dare a Loris un fratellino o una sorellina, prima che sia
troppo tardi per questioni anagrafiche. Gravitiamo già, infatti, oltre i 35 anni. Altro fattore che ci sta
spingendo ad accelerare i tempi è anche il sostegno che Vanda è sicura di trovare nei suoi splendidi
genitori, persone molte laboriose che hanno lavorato per una vita in una fabbrica di manufatti tessili
e che adesso si godono i frutti di una meritata pensione con una quantità smisurata di tempo libero a
loro disposizione. E poi c’è l’altra questione che a molti potrà sembrare piccola ma che per noi
assume uno spessore rilevante: la morte del nostro adorato golden retriever Mok, avvenuta meno di
un mese fa. Loris ne ha sofferto da cani ma anche per noi il colpo non è stato da meno. Ricordo
come un incubo l’agonia di Mok, ucciso da un male incurabile all’ultimo stadio e scoperto dal
veterinario quando era ormai incurabile e senza possibilità di operare. Quando ci ripenso sento
ancora tremende fitte allo stomaco ma mi consola il pensiero di aver fatto tutto quello che era
umanamente possibile per il nostro cane. Le visite periodiche dal veterinario non erano lesinate e,
ad ogni modo, non si erano verificate manifestazioni comportamentali che lasciassero presagire un
così tetro fine. Per esemplificare, il veterinario ci ha detto che non tutti i tumori si manifestano con
manifestazioni di dolore e questa, purtroppo, è una gran brutta cosa perché il tarlo del male scava
nel profondo senza che lo si possa fronteggiare in qualche modo e, quando si intuisce la verità, è
spesso troppo tardi. Del resto anche fra gli umani capita la stessa cosa. Solo che adesso Loris sta
veramente male. Questo è un anno molto importante per lui perché fa la prima elementare, inizia a
socializzare con i suoi nuovi compagni e scopre un mondo tutto nuovo per lui. Un universo di
colori, odori, sensazioni che avrebbe voluto condividere con il suo grande amico di sempre a
quattro zampe ma che purtroppo dovrà tenere tutto per sé. A meno che...A meno che….È un po’ che
rimugino dentro di me quell’idea ed è un tarlo assillante che mi ronza in testa come il sibilo tedioso
di un moscone che ronza in estate intorno alla sua preda prescelta...Prendere un altro cane per il mio
bambino...Certo, non una fotocopia di Mok...Nessuno potrà mai sostituirlo, ma, comunque, pur
sempre un altro essere vivente che tenga compagnia al nostro Loris nelle sue scorribande. Ne
abbiamo discusso tanto con mia moglie e i miei suoceri e ci siamo trovati tutti all’unisono. Bisogna
strappare il bambino all’apatia che minaccia di avvolgerlo e specialmente ora, in vista di queste
sante feste che per tutti i bambini di questo mondo dovrebbero essere costellate solo da momenti
infiniti di gioia. Che utopia! Mi fa impressione dover affrontare un nuovo capodanno insieme ma
con questo immenso squarcio nel cuore. È come se fossimo tutti vivisezionati ma dobbiamo reagire.
Nel frattempo ho chiesto alla signora Sperati, la direttrice, se per la notte di San Silvestro Posso
portare i dieci bambini dell’istituto a casa mia per fargli trascorrere una piacevole serata in famiglia
e lontani dagli orrori di quel luogo. Che ironia della sorte quando torno col pensiero al cognome di
quella strega! Sperati evoca subitaneamente immagini iridate di speranze e di visioni paradisiache
piene di ottimismo verso il prossimo, quando invece...Mai vista donna più arcigna di quella...Tutti
noi ci siamo fatti l’idea che sia un essere tremendamente solo e senza affetti. Non parla mai della
sua vita privata. Non che sia completamente cattiva! A volte, sapendola prendere, è anche capace di
slanci inusitati di gradevole umanità, ma sono solo degli spezzoni, quasi delle schegge di bellezza
estratte da uno squallido copione di uno dei tanti noir dozzinali prodotti per un cinema di bassa lega
e al solo scopo di fare cassetta al botteghino. Frammenti sporadici di umanità. Comunque, non ha
detto né si e né no ma nì. «Vedremo!» con quella sua aria sempre burbera. Speriamo bene. Voglio
bene a questi bambini e desiderei, almeno per una volta, fargli passare un capodanno come Cristo
comanda. Non che quello dell’anno passato sia stato male ma c’era ancora Mok, e poi
quell’incredibile storia...Non ci crederebbe nessuno ed ho evitato di menzionarla anche con Vanda,
pur sapendo come sia spietatamente perspicace. Non che abbia intuito tutto ma ha compreso che
qualcosa di strano è capitato e penso che prima o poi cederò al mio impulso irrefrenabile di
raccontarle tutto per filo e per segno. Del resto, non ci siamo mai nascosti nulla e il nostro rapporto
è sempre stato cesellato sulla base di solide fondamenta: perché mai dovrebbe sgretolarsi per
l’incredulità a una narrazione di similare portata? Tutt’al più resterebbe un segreto fra di noi,
intendo non solo me e Vanda ma anche il nostro bambino. Loris è sì, come del resto tutti i suoi
coetanei, un bambino incredibilmente capriccioso ma solo a volte. In altri frangenti è di una
profondità inaudita per un bambino di soli sei anni, tanto che spesso ci chiediamo stupiti da chi
possa aver preso.
In un anno ha fatto, poi, passi da giganti. L’anno appena trascorso lo ha maturato quasi con
violenza. Ricordo che di questi tempi era insopportabile perché desiderava dei giocattoli che non
volevamo comprargli perché, a nostro avviso, costavano troppo. Non siamo spilorci ma desideriamo
che nostro figlio impari ad apprezzare il giusto valore delle cose e del denaro fin da piccolo per
evitare che cresca come un perfetto egoista. Rammento che, dopo l’ennesima scena quasi isterica
davanti alla vetrina del negozio dove si trovavano i giocattoli che voleva comprare, io, in parte per
gioco e in parte per non perdere la pazienza, gli proposi davanti a mia moglie:
«Quest’anno papà desidererebbe trascorrere la notte di capodanno in maniera differente dal
solito. A natale siamo stati tutti insieme e spero che i nonni non ci rimarranno male se, per una
volta, passerò la notte di capodanno con i bambini dell’istituto dove lavoro. Mi piacerebbe che tu
venissi con me e trascorressi quelle ore con noi, anche per capire che bambino fortunato sei e di
quanto non te ne renda conto. Che ne dici? Potrai portare anche Mok con te. Sappiamo tutti che
siete inseparabili.» Nel frattempo spiavo il viso di mia moglie per osservare le sue reazioni ma ebbi
la piacevole sensazione di veder campeggiare sul suo volto l’ombra quasi violenta di un sorriso!
Che strana espressione quella che ho usato poc’anzi ma è proprio esattamente così che la percepii in
quei pochi istanti...come un qualcosa di molto intenso che Vanda combatteva per non lasciar
trasparire ma che, nel contempo, si liberava da lei con uno strattone e lottava per emergere
prepotentemente a galla.
Loris rimase qualche istante come stordito, quasi inebetito da quella proposta improvvisa.
Poi, ripresosi di colpi da quella momentanea staticità, scoppiò in un diluvio quasi torrenziale di
parole:
«Per me va bene ma potreste farmi, tu e mamma, un bel regalo al posto dei giocattoli. Mi
piacerebbe che parlaste con Gesù bambino per chiedergli di far parlare Mok.»
Non era la prima volta che veniva a galla quella spinosa questione. È vero che non si
possono ferire i sentimenti di un bambino così piccolo ma, una cosa era fargli credere che
esistessero babbo natale e le fate, e una cosa era avvalorare un discorso così assurdo. In quel
momento fu Vanda che raccolse tutta la sua pazienza e, inginocchiandosi davanti al bambino , gli
disse:
«Ne abbiamo già parlato altre volte, Loris. I cani non possono parlare e non lo faranno mai.
Mi dispiace per te e il tuo amico ma devi accettare la realtà per quella che è e non faremmo il tuo
bene prendendoti in giro. Se vuoi puoi rimanere con me e i nonni ma sarei felicissima se accettassi
di andare con papà e conoscessi questi bambini che sono tanto più sfortunati di te, te lo assicuro.
Potresti portare anche Mok, se vuoi. Pensaci. Sarebbe un’esperienza molto costruttiva.
Silenzio da parte di Loris. Qualche istante di esitazione e poi, con voce quasi tremolante e
molto diversa dal tono isterico di pochi minuti prima, il bambino replicò:
«Va bene, mamma. Andrò con papi. Continuo, però, a sperare che, prima o poi, Mok inizi a
parlare con me. Gli voglio raccontare tante cose.»
In quel momento provai una gioia intensa. Forse una delle più grandi che avessi provato in
tutta la mia vita. Sentivo che, finalmente, non ero fuori posto nell’ordine naturale delle cose e di
tutto il creato. Concepire un figlio non significava nulla se non si riusciva ad instillargli gocce della
tua sapienza e a far sì che divenisse un essere umano retto e probo. Forse stavo chiedendo troppo a
quel frugoletto di cinque ma non desideravo, nemmeno minimamente, pormi il problema. In fondo i
miei genitori avevano fatto lo stesso con me e non è che i risultati fossero stati negativi. Ero
cresciuto con una sfilza innumerevole di complessi ma anche con la caparbietà di un uomo che
guarda con tenacia alla realizzazione dei suoi obiettivi e non si scoraggia alle prime avversità.
Venne poi il gran giorno del 31 dicembre. Il pomeriggio avevo cercato, con mille pretesti, di
convincere la direttrice che volevo rimanere di turno quella sera visto che quasi tutti desideravano
essere liberi per festeggiare con le famiglie o con i loro amici. Anche l’irreprensibile Sperati si
sarebbe recata a casa di conoscenti ed avrebbe pernottato lì. L’essenziale era che rimanessero due
sorveglianti per controllare i bambini. Il problema era che la direttrice non comprendeva come mai
volessi rimanere là invece di stare con la mia famiglia quando c’erano due scapoli che si erano
dichiarati tranquillamente disponibili per quella notte. Decisi in quel momento di non insistere per
non suscitare inutili sospetti. Sarei ritornato dopo le nove di sera ed avrei fatto leva sulle mie ottime
qualità oratorie per muovere a compassione i due guardiani. L’ostacolo più grosso era costituito da
un certo Amedeo, energumeno di oltre novanta chilogrammi e con un passato poco limpido da
pugile dilettante che si era poi riciclato, in tarda età, come guardiano. Non era del tutto cattivo ma
viveva nel terrore di quell’arpia della direttrice. Alle strette avevamo tutti il medesimo chiodo di
evitare grane per non perdere il posto di lavoro. Tutto qua. Decisi, ad ogni modo, che avrei
affrontato il problema al momento cruciale e senza fasciarmi la testa con mille pensieri contorti che
non avrebbero portato a niente di concreto.
Le ore scorrevano con una lentezza inesorabile. Cercai d’ingannare l’attesa chiacchierando
con Vanda e i suoi del più e del meno. Mia moglie, da saggia padrona di casa qual’è, non aveva
voluto che mi presentassi a mani vuote in, come lo definiva lei, collegio, ed aveva voluto riempirmi
di sporte contenenti ogni ben di dio. Più che altro dolcetti comprati in pasticceria o cucinati con le
sue mani o con le sapienti arti culinarie di mia suocera Letizia.
«I dolci sono sempre graditi da tutti ed evitiamo problemi di eventuali indigestioni visto che
i bambini sono molto piccoli e a quest’ora avranno già cenato. La notte di San Silvestro vogliono
tutti scappare e si sbrigano prima del solito. Porta la scatola della tombola per divertire i piccini.
Non sarà un gioco alla moda come i roboanti passatempi digitali di oggi ma credo che vi divertirete
lo stesso. Non dimenticare anche la scatola di croccantini per Mok. Sai quanto è goloso ma evitate
di dargliene a dismisura perché secondo il veterinario è già sovrappeso.»
Mi venne da sorridere all’idea di Mok ma il pensiero di Vanda era sapientemente costruito e
in effetti il nostro cane era sfacciatamente in sovrappeso. Baciai la mia dolce metà con tenerezza e
feci segno al bambino e al golden retriever che potevamo avviarci. Mi sentivo stranamente
emozionato.
La prima parte del mio temerario piano si svolse con meno incidenti di quanto avevo
supposto. Oddio, non è che convincere Amedeo fu un gioco da bambini ma, alla fine, quando gli
dissi che desideravo far socializzare questi bambini sfortunati con mio figlio, si arrese dicendo:
«E va bene. Ho anch’io una figlia e ti comprendo. Sono scapolo nel senso che sono un
ragazzo padre e sto crescendo mia figlia da solo. Ha quasi dodici anni ma non puoi immaginare,
neanche lontanamente, quanto sia dura da soli. L’altro sorvegliante farà quello che dico io. Mi
raccomando solo di non fare troppo chiasso per evitare che qualche vicino si possa indispettire e
possa poi riferire tutto alla direttrice quando ritornerà domani sera. Se succede qualcosa non potrò
coprirti e dirò che sei entrato procurandoti la chiave dell’orfanotrofio. Penso mi capirai
perfettamente.»
«Ti comprendo», rispose senza ombra d’esitazione Ernesto. «Ti prometto che sarò prudente
e che andremo via molto prima dell’alba. I bambini sono ancora molto piccoli e devono riposare a
sufficienza. È solo per fargli trascorrere un capodanno differente che abbia, perlomeno, una
parvenza, sia pur molto esile, di nucleo familiare. Non è lo stesso di una vera famiglia ma è sempre
meglio di un niente assoluto.»
«Ti capisco anch’io». La replica di Amedeo non fu da meno. «È molto bello quello che fai.
Auguri di buon anno a te e alla tua famiglia.»
«Grazie mille.» Mi stavo commuovendo come uno stupido. «Ricambio.»
La sera trascorse nel migliore dei modi. Mi sentivo quasi come un folletto apportatore di doni e
benessere. Magari mi solleticava maggiormente il pensiero di arrecare un po’ di felicità piuttosto
che doni perché i dolci si potevano considerare come dei regali ma fino a un certo punto, ed era
molto più magico riflettere sul senso intrinseco più profondo di quel mio sentimento...Forse non ero
in grado di risolvere i problemi dell’intera umanità e nessuno lo sarebbe stato in grado mai, ma era
bello, nella sfera ridotta del mio intimo quotidiano, risollevare l’animo di quegli esserini così
martirizzati dalla sorte, sia pur per pochi istanti..Il passato, con il suo carico atroce di dolori e
malesseri inespressi si sarebbe poi riaffacciato prepotentemente con i suoi carichi grossi di macigni
da sopportare sulle spalle, ma cosa importava in quegli attimi magici? Era bello lottare e cercare di
dire no alle avversità.
La cosa più toccante fu constatare come Loris socializzò quasi all’istante con quei bambini
così provati dalla vita, alcuni suoi coetanei ed altri poco più grandi di lui. Ci furono dei brevi istanti
quando, osservando tutte quelle testoline attente ai numeri che venivano estratte dal sacchetto della
tombola, riflettei su quanto bastasse poco per far felici dei bambini. I dolci avevano avuto il
successo che Vanda aveva sperato ma quello che contava era lo stare insieme al di là delle
implacabili differenze sociali. Qualcuno obietterà che era facile per me fare il buon samaritano per
una sera e ritornare poi alla mia vita di sempre e forse avrebbe anche ragione, ma cos’altro avrei
potuto fare? Come ho già detto prima non è che ci si possa colpevolizzare per i mali dell’intera
umanità. Lo avevo già fatto per un’intera vita quando chiunque riusciva a farmi sentire inadeguato
con qualsiasi appunto che mi rivolgeva e non desideravo farmi condizionare ulteriormente come era
capitato in passato. Sentivo che anche per me era giunto il momento di crescere e dare una scossone
decisivo alla fiumana dell’intera mia esistenza. L’evento più strabiliante fu, però, quando
brindammo a mezzanotte per festeggiare l’arrivo del nuovo anno con delle bibite che avevo portato
per supplire la mancanza di alcolici inevitabile per bambini in così tenera età. Mentre alzavamo i
bicchieri e ci abbracciavamo, percepii dentro di me il suono quasi umano di un timbro di voce che
conservava una strana cadenza quasi soprannaturale e udii Mok che ci augurava senza possibilità di
equivoco il buon anno. Ero trasecolato e non potevo crederci. Stavo forse diventando pazzo o ero
semplicemente vittima delle suggestioni di mio figlio? Uno scherzo perverso dell’immaginazione o
del sistema nervoso gravato dal logorio di una vita moderna sempre più stressante? Mentre cercavo
di rispondere mentalmente a questi miei interrogativi, sentii di nuovo quel suono rauco quasi
gutturale e mi resi conto che il mio cane leggeva nei miei pensieri più reconditi.
«Non sei pazzo anche se forse hai pensato di esserlo. Non so come spiegarti e ne sono
stupito anch’io. Ho sentito come una melodia trapassarmi di parte in parte e dirmi che ho il dono di
parlare con te e i bambini fino a domani sera. Quando il primo gennaio terminerà tutto scadrà e
tornerò ad essere solo il vostro golden retriever di sempre. Sono molto contento per Loris perché so
che desiderava da sempre che io iniziassi a parlare ma sarà solo per un breve periodo. Però è già un
qualcosa.»
Non riuscivo ad emettere suoni. Poi, finalmente, trovai il coraggio e chiesi ai bambini:
«Sentite anche voi come me? Mi sembra che Mok parli!»
Mi sentivo agitato e con il cuore in fiamme. Alla fine i bambini che, nel profondo, si
adeguano alle novità molto prima dei grandi, mi risposero:
«Sentiamo anche noi che Mok parla! Che bello! Però ci sta dicendo che presto ci dovrà
lasciare per andare a parlare con bambini di altri orfanotrofi qui vicino! Che peccato! Non vogliamo
che Mok vada via!»
Volevo replicare ma percepimmo tutti nell’aria il suono di quella voce stranamente gutturale
che, dolcemente ma perentoriamente, replicò:
«Bambini, ci sono altri bambini sfortunati come voi. Il dono di parlare con voce umana mi è
stato concesso per sole ventiquattro ore! Non dovete essere egoisti!»
Ci guardammo tutti e scoppiammo a ridere. Per la prima volta in tutta la serata vidi i volti di
quei bambini completamente distesi. Giocammo altre tre o quattro partite di tombola e poi dissi che
stava albeggiando e che dovevamo andar via. I bambini mi saltarono al collo e, senza necessità di
tante parole, realizzai in quei pochi secondi tutto l’enorme spessore del loro affetto.
Sulla strada del ritorno verso casa faticai a controllare l’irrefrenabile entusiasmo di Loris.
Era eccitatissimo per tutti gli eventi di quella lunga notte ma supponevo che, di lì a poco, sarebbe
crollato come una pera cotta ed avrebbe ceduto al grande senso di stanchezza accumulato nelle
svariate ore di veglia. Gli feci però promettere che non avremmo parlato a casa della faccenda di
Mok parlante e che quello sarebbe rimasto il nostro segreto. «Tanto,» gli dissi, «a parte il fatto che
non ci crederebbe nessuno e ci prenderebbero per due matti, hai sentito anche tu che è solo una cosa
temporanea che gli è stata concessa per un giorno e che tornerà ad essere solo un cane.»
Il mio bambino mi guardò con quell’aria da furbacchione che riesce ad assumere in certi
momenti e replicò:
«Non preoccuparti, papà. Meglio non agitare mamma e i nonni. Però è stato bello sentire che
Mok parlava. Veramente un bel regalo. Non me l’aspettavo proprio.»
«Già!», risposi io. «Veramente un imprevisto dono d’amore che qualcuno ha voluto farti
attraverso Mok.»
Come trascorre in fretta il tempo. Mi sento sereno ma oggi, però, alla vigilia di un nuovo
capodanno, la mia decisione di tener nascosto tutto a Vanda inizia a vacillare. Mia moglie ha intuito
che non le ho detto tutto ed è rimasta perplessa quando ha visto che il cane è ritornato solo la sera
successiva. Quello che comunque so con certezza è che siamo tutti concordi in famiglia per cercare
di comprare un cane a Loris il più presto possibile e che desideriamo far passare un altro capodanno
decente ai miei cari orfanelli, sottraendoli per una volta all’atmosfera opprimente dell’istituto. Dal
giorno dello scorso capodanno i miei rapporti con questi bambini sono ancora migliorati e sento che
tutti si sono affezionati di più alla mia famiglia al punto che chiedono spesso di Loris e la cosa è
anche reciproca, tenendo in conto che, spesso e volentieri, nostro figlio, senza che noi lo
sollecitiamo, ci chiede di portare dei giocattoli in collegio ai suoi amichetti. «Ne ho così tanti,
papà!», mi dice, «mentre loro non hanno niente». Ecco, in questi precisi momenti mi sento
orgoglioso di essere uomo e padre, tanto che recupero dentro di me il vero senso della notte di
capodanno, una festa, sì, di diversione per guardare con ottimismo al futuro, ma anche una
ricorrenza per riflettere serenamente ed obiettivamente sul senso più profondo della nostra vita e per
ricordarci che, al di là di botti, cotechini, lenticchia, veglioni e champagne, siamo anche uomini con
la A maiuscola e non dobbiamo mai smarrire il nostro percepirci razionalmente esseri umani in
comunione con i nostri simili ed astraendoci rabbiosamente da egoismi di ogni tipo e crudeltà a
buon mercato. In ultima analisi, per concludere, un’occasione unica per dare un colpo di spugna agli
errori e permetterci di vivere un’esistenza che sia veramente degna di essere vissuta.