La recensione di "Si nota all'imbrunire", di Lucia Calamaro in scena al Teatro Quirino fino al 2 Febbraio

Recensione a cura di Mario Turco

Calamaresco. Se scriviamo quest’aggettivo qualcuno penserà a un proprio amico dalla spina dorsale magari non esattamente diritta o dalle mani molto veloci, come fossero tentacoli. Ed invece calamaresco si sta affermando per delineare la poetica di Lucia Calamaro, uno dei nomi di punta del teatro italiano. Interprete, regista e scrittrice delle proprie opere con “Si nota all’imbrunire - Solitudine da paese spopolato”, in scena al Teatro Quirino di Roma fino al 2 Febbraio la sua scrittura raggiunge il temporaneo, ne siamo sicuri, zenit. Con quest'ultima pièce che il Quirino ripropone in cartellone dopo che già nel 2019 aveva fatto una trionfale tournèe nei palchi nazionali l’aggettivazione acquista i suoi caratteri definitivi. Non coercitivi sicuramente, non tanto per la capacità della critica di aggiornare il suo sguardo ad ogni opera, quanto per l’intelligenza dell’autrice il cui magma esperienzale marchia a fuoco, e continuerà a farlo, la sua produzione. In Si nota all’imbrunire, ad esempio, Calamaresco dice di aver creato lo straordinario personaggio di Silvio, interpretato dal perfetto Silvio Orlando, pensando già in fase di ideazione proprio all’attore partenopeo: “A me piace di Orlando la pacatezza, il suo sentirsi dismesso dall’esistenza e il suo personaggio gli somiglia. Lui emana mitezza, non è agguerrito, né logorroico, né dinamico, ma silenzioso e mite, e discreto, un personaggio“statico” tra Oblomov e lo scrivano Bartleby di Melville”.


Proprio dalla mollezza filosofica di Oblomov (anch’egli diventato ben presto aggettivo, ça va sans dire) creato dallo scrittore russo Ivan Aleksandrovič Gončarov, unita alla contemporanea perdita d’identità sociale, si può per partire per cercare di comprendere l’alienazione a cui giunge il contemporaneo Silvio. Anche qui torniamo alle parole di Calamaro che nelle note di regia e dopo accurate ricerche scientifiche così inquadra il particolare status del suo protagonista: “La socio-psicologia le ha dato un nome: “SOLITUDINE SOCIALE”. Essere isolati dalla società è un male oscuro e insidioso. Tutti noi infatti, in quanto esseri umani, abbiamo bisogno del contatto con gli altri, un bisogno che ci permette di sopravvivere. Secondo gli esperti potremmo trovarci alle prese, e non solo nei paesi più ricchi, con un’epidemia di solitudine. Diffusa oramai anche tra i giovani”. Silvio nel decennale della morte della moglie si riunisce con i familiari per le celebrazioni del caso. Quest’anno il suo perenne “capochinismo” (stare a testa in giù fissando in linea retta un oggetto indefinito) si è acuito nella mancanza di volontà dell’esercizio fisico: ha scelto insomma di restare seduto e non alzarsi per (quasi) nessun motivo. La sua apatia sentimentale verso i 3 figli e il fratello mai come quest’anno degenera in una malinconia triste e un rifiuto dei rapporti umani. Si nota all’imbrunire comincia con un attacco meta-teatrale a cui solo la spontaneità di Silvio Orlando evita la stucchevolezza. Il suo personaggio cerca nel primo monologo la partecipazione del pubblico e per farlo tocca alcune note comiche di facile presa sul pubblico (le battute sulle cassiere della COOP sembrano prese da uno spettacolo di stand-up comedy). 


Nel corso dell’opera la commedia farà sempre rima con tragedia, come accade fin troppo spesso nel teatro italiano. Ma è tutta una finta: ben preso la densità dei dialoghi prenderà il sopravvento e pur correndo il rischio di saturazione argomentativa (si passa senza soluzione di continuità dalla giusta disapprovazione delle citazioni a piè sospinto alla mancanza di talento poetico della figlia Alice) la scrittura di Calamaro mostra ancora una volta, mai forse in maniera così cristallina, la sua pregnanza. L’autrice cerca spesso l’applauso ma non se fa nulla; a lei interessa instillare il germe del dubbio nei momenti di silenzio in cui la platea non l’acclama. Si nota all’imbrunire parte da un’evidente ricerca biografica e la trascolora in questo padre dimenticato dei figli ma anche, soprattutto, dimentico lui della sua prole e del consesso umano. La morte della moglie ha accresciuto la sua voglia di lasciarsi spegnere, un lento e dolorosissimo viaggio verso il nulla circondato da parenti che ne vedono questo silenzioso autodafè ma non riescono ad opporvi resistenza. Qui Calamaro riesce ad arricchire la storia donando ad ognuno di essi un credibile background non meno fallimentare di quelle del capofamiglia. Nel finale l’ultima illusione cadrà: un potente colpo di scena, da noi che siamo comunque spettatori smaliziati nemmeno sfiorato, darà la definitiva sentenza su Silvio. Si notava all’imbrunire che quelli erano lacerti di anima non più integri e noi invece credevamo fosse ancora un giorno recuperabile. Ci siamo come sempre sbagliati ed un uomo resterà con la peggior compagnia possibile: sé stesso.

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