Recensione a cura di Mario Turco
“Illusioni perdute” racconta di Lucien Chardon, giovane operaio in una tipografia che nutre velleità da poeta provinciale nella Francia della Restaurazione. La sua vita nella piccola ed operosa Angoulême scorre tra i primi reading nelle magioni nobiliari, ottenuti grazie all'intercessione della sua mecenate Louise de Bargeton, e l'amore verso una donna matura, sempre la stessa Madame de Bargeton. Ma il sogno letterario di Luciene è troppo grande per essere vissuto all'ombra della pettegola campagna francese (in paese si mormora già sulla sua relazione con l'avvenente Louise) ed egli allora si reca a Parigi, accompagnato dalla sua amante, per cercare un editore che pubblichi la sua raccolta di poesie “Margherite”. Nella capitale l'aspirante verseggiatore si troverà a dover i conti con il ben più prosaico giornalismo delle gazzette liberali che, approfittando della legislazione del tempo particolarmente favorevole, avevano inquinato il mondo culturale dell'epoca introducendovi per la prima volta i principi più sfrenati del libero mercato e della concorrenza sleale. L'astio che Balzac riservava nelle sue pagine alla nascente corporazione dei “trafficanti di parole” viene rilanciato da Giannoli nel suo film grazie ad una grande sceneggiatura che pur non rinunciando alla corrosiva scrittura originale – il sapiente uso del voice-off che accompagna le immagini senza mai renderle succube della verbosità ma, finalmente, fungendo da complemento – riesce ad emanciparsi da esso originando un discorso evidentemente imbastito sul presente e sul passato recente.
"Il giornale considera vero tutto quello che è probabile", urla infatti spregiudicatamente in una scena Étienne Lousteau, redattore corrotto e corruttore del Corsaire, che inizia Lucien al mestiere e che verrà addirittura scalzato da lui in quanto a infingardaggine e bramosia. “Illusioni perdute” è un formidabile apologo etico su quelle che il critico Georg Lucaks, in penetranti pagine di critica marxista dell'originale letterario, ha definito “capitalizzazione degli spiriti” e l'inarrestabile “mercificazione del mondo”. Il regista francese racconta con veemenza la proliferazione delle più sordide tattiche commerciali per raggiungere il successo nella società dell'epoca: la legge del profitto (i giornalisti che dichiarano di rispondere solo agli azionisti delle testate, non agli editori né tanto meno, mon dieu!, al pubblico), le recensioni usate per mercimonio quando va bene e per stroncare carriere di incolpevoli attrici quando va male, l'uso di “anatre”, ovverosia le notizie false , per stampare calunnie e diffamazioni a bella posta. Nonostante il forte rischio moralismo, il film riesce a muoversi con grazia miracolosa tra urgenza della denuncia e appassionante sentimentalismo, come dimostra, tra le tante, la scena del dialogo in redazione tra Etienne e Lucienne sulle sfumature di significato e di linguaggio che si possono adoperare per demolire un'opera. L'ascesa e la caduta del mancato conte De Rubempré, vanificata dalla classe di appartenenza ed allo stesso tempo sabotata da quella di arrivo, si dipana sulla pellicola con la grande enfasi visiva tipica dei migliori film di costume. In questo modo, il film di Giannoli riesce ad accontentare senza svendersi (almeno lui, ed in lungometraggio che cita tra le righe il celeberrimo motto di Victor Hugo del chi pagherebbe per vendersi è già un gran risultato) sia il grande pubblico che vuole ed ottiene un bel caso di amour fou (Luciene-Coralie) sia l'intellettuale engagé che potrà rilanciare i suoi moniti sulle fake news. Contribuendo anch'egli ad alimentare il malato sistema informativo ma questa è una storia che solo Balzac avrebbe potuto narrare.