Recensione a cura di Mario Turco
Col ritratto oversize di John Kent, compresso tra la volontà rapsodica di essere un fantastico padre e quella molto più sostanziale di coltivare i suoi tanti “business”, Penn aveva potenzialmente tra le mani un'ottima sceneggiatura (scritta tra l'altro dal drammaturgo Jez Butterworth) molto in sintonia con il ribellismo anarcoide e confuso dei suoi personaggi precedenti. Forse è proprio questa consapevolezza artistica ad appesantire nella prima parte ed affossare definitivamente nella seconda l'andamento di un film troppo sbilanciato sui due protagonisti. Perché, oltre al sedicente imprenditore ma in realtà rapinatore di banca e falsario - Penn edulcora le malefatte del suo personaggio facendole apparire come sbandamenti estemporanei piuttosto che come i passi di un coerente percorso criminale come fu realmente - “Una vita in fuga” intenderebbe raccontare anche la storia della giornalista dalle cui memorie è tratto il film. Affidando la parte alla figlia Dylan Penn, incredibilmente somigliante alla madre Robin Wright ma senza un'oncia della sua inquietudine attoriale, il divo hollywoodiano si fa prendere la mano da estetismi malichiani, primi piani imbronciati, trucco e parrucco adolescenziali improponibili, e nemmeno una scena credibile sulle frequenti cadute tossiche di una figlia devastata da un padre così malandrino. Anche la scelta di attraversare diacronicamente i tre decenni in cui è ambientata la vicenda non porta a nessuna riflessione audiovisuale, bensì sembra una scusa per auto-ringiovanirsi digitalmente e poter richiamare alla memoria dello spettatore le memorabili performance degli anni 90 e dei primi Duemila.
Se John Vogel è nato il 14 Giugno, giorno della bandiera statunitense (da qui il ben più pregnante titolo originale), la sua odissea esistenziale non riesce mai a farsi simbolo disperato e disperante dell'American Dream: lo slavato progressismo di Penn lo fa flirtare in maniera troppo spudorata col patriottismo a stelle e strisce facendogli dimenticare le sue insopprimibili idiosincrasie. Non è questione di lasciare libero il punto di vista dello spettatore, perché per quanto riguardo il lato umano, questo sì evidenziato con tre/quattro pennarelli visivi, il film abbonda di lapalissiane sequenze madri. Il continuo rincorrersi tra John e Jennifer è difatti segnato da rotture e riavvicinamenti dove tutto è urlato, banalmente decodificabile ed in cui nemmeno l'evidente personalismo dell'opera – in questo lacerato rapporto filiale si vede a più riprese come Penn si rispecchi molto, peccato che oltre la presenza dei figli Dylan e Hopper Jack questa traccia auto-biografica non riesca ad acquisire spessore – riesce ad aggiungere spessore drammatico alle scene. Così il suicidio finale di John è da Penn filmato non tanto come la dolorosa catarsi per l'oramai affermata giornalista ma l'ennesimo atto di folle generosità di un padre patologicamente bugiardo ed allo stesso tempo smisuratamente affettuoso che si sacrifica per ridare alla figlia quella libertà che per tanti anni le aveva precluso.