La recensione dello spettacolo "Il filo di mezzogiorno", di Mario Martone in scena al Teatro Argentina di Roma fino al 5 Giugno
Recensione a cura di Mario Turco
Prodotto da Teatro di Napoli, Teatro Stabile di Catania, Teatro di Torino e Teatro di Roma, lo spettacolo è la trasposizione su palcoscenico del romanzo omonimo (pubblicato da Garzanti nel 1969 e riedito l’anno scorso da La nave di Teseo) scritto dall’attrice, scrittrice e poetessa Goliarda Sapienza e basato in larga parte sulle sue disavventure biografiche. Come riassume efficacemente lo psicanalista Vittorio Lingiardi nella sua bellissima recensione su Repubblica: "All'inizio degli anni Sessanta, dopo un ricovero per un episodio depressivo, un ciclo di elettroshock e un'abbuffata di psicofarmaci, il compagno Citto Maselli decide di affidare Goliarda alle cure di un rinomato freudiano dell'epoca, Ignazio Majore (sarà anche uno degli analisti di Fellini)". Da qui parte l’adattamento operato da Ippolita di Majo che pur rimaneggiato in qualche passaggio – eliminate le crudezze sanatorie, asciugato il rapporto di semi-dipendenza affettiva ed intellettuale con la madre (la famosa sindacalista lombarda Maria Giudice) e reso più prosaico lo stile incendiario – racconta proprio il percorso psicanalitico tra la paziente ed il “medico dei pazzi”, come lo dileggia con amarezza lei a più riprese. “Il filo di mezzogiorno” è quindi il resoconto delle sedute di psicanalisi a cui l’autrice si sottopose per oltre tre anni, a partire dal 1962, ogni giorno della settimana tranne Sabato e Domenica, proprio alle 12 nel suo appartamento. Di fronte a questa danza verbale tra la donna con la memoria lacerata dai violenti trattamenti subiti e lo specialista chiamato a dare ordine a quell’ordito mentale disfatto, interpretati rispettivamente in maniera superba da Donatella Finocchiaro e Roberto De Francesco, la scelta principale della regia di Martone è di immergerli in un ambiente simmetricamente speculare.
La stanza dell’appartamento di Goliarda infatti si auto-replica in un altro salotto uguale/contrario dalla forte valenza metaforica e dal destabilizzante impatto spettatoriale – il gioco di sguardi tra i due travalica spesso lo spazio orizzontale, in una specie di scavallamento di campo cinematografico a cui Martone ha probabilmente pensato. È l’adattatrice Ippolita di Majo a svelare il significato della fondamentale scelta scenica: “La zona 1 è uno spazio vuoto, buio, onirico. È lo spazio del mondo interno di Goliarda, una zona appartata e solitaria, sprofondata nei meandri dell’inconscio. La zona 2 invece è il luogo della realtà, della relazione, è la sua casa, il luogo in cui i fantasmi prendono corpo, ma sono arginati dall’incontro con il dato reale, è il posto in cui ogni giorno viene a farle visita l’analista che l’ha presa in cura”. Nel corso dell’ora e quaranta di durata dello spettacolo e dello sviluppo finzionale della terapia lunga tre anni, Goliarda passerà diverse fasi: dall’ingestibile perdita di memoria iniziale che nel prologo la fa parlare come se fosse stata appena ammessa all’accademia Silvio D’Amico (ed i relativi esercizi sulla parola “cerniere” per aprire il diaframma e lenire l’accento catanese) alla presa di coscienza del suo tentativo di suicidio fino all’innamoramento verso il proprio medico, che una volta smessa di trattarla paternalisticamente (“L’amicizia tra donne è sempre ambigua” detta come se fosse un corollario scientifico) rimane rapito dalle lacerazioni nelle quali egli stesso sembra vedersi. “Il filo di mezzogiorno” è allora la presa d'atto dell'impossibilità del transfert, del setting e della relazione terapeutica in senso lato: la mente non è una scienza esatta e la nevrosi, come nel caso dell’illustre psicanalista Mejore, alligna anche nel curatore. Goliarda Sapienza vuole essere ricordata come la donna che “muore perché ha vissuto” ma, parafrasando, potremmo dire che a noi piace portarla nel cuore come l’artista che muore perché ha sofferto e non è più fuggita dal suo dolore.