La recensione di "L'albergo dei poveri", lo spettacolo tratto dall'opera di Maksim Gor'kij, che per la regia di Massimo Popolizio andrà in scena al Teatro Argentina di Roma fino al 3 Marzo
Recensione a cura di Mario Turco
L'albergo dei poveri, conosciuto anche come "I bassifondi", in questa occasione viene ridotto dallo scrittore Emanuele Trevi e dallo stesso Massimo Popolizio in un lungo e prezioso lavoro di cesellatura che ha visto impiegato i due artisti per mesi. Un materiale già autonomamente importantissimo che con bella gagliardia l'attore ed il regista genovese hanno quindi scelto di portare sul palco. “La parte più autentica del suo retaggio – a metà strada tra Leskov e Čechov – è forse quella che ci restituisce la potenza espressiva del suo sguardo puntato senza filtri sulle moltitudini di emarginati o sul mondo della più gretta e inerte borghesia russa. Le sue creature letterarie uccidono e filosofeggiano, percorrono in lungo e in largo la Russia delle due capitali e quella delle campagne, parlano per aforismi e allegorie, sempre in bilico tra perdizione e cinismo, misericordia e tracotanza, inabissate nei meandri della disperazione o guidate dalla volontà di riscatto, alla perenne ricerca del significato della vita", scrive Paola Ferretti dell'università La Sapienza nell'opuscolo d'accompagnamento che viene fornito per sottolineare l'importanza di questa operazione culturale. Un'operazione che non poteva essere calata dall'alto come la più dolce delle mannaie pedagogiche ma che si è voluta ritagliare spazio anche per qualche micro-riscrittura: "Noi abbiamo preso il materiale di Gor’kij e lo abbiamo esasperato innestando delle micro-inserzioni di altri testi e di altri autori: Čechov, Florenskij, Tolstoj, Puškin, dello stesso Trevi, persino di Cormac McCarthy", si legge infatti nelle note di regia.
Così uno dei drammi più importanti del realismo russo viene ulteriormente vitaminizzato con dosi di umanitarismo letterario che hanno però il gran merito di non scadere mai nel patetismo spicciolo di tanta letteratura borghese ma contribuiscono ad allargare con lena e sentimento le maglie delle tragedie rappresentate. Che sono tante, come quelle dei suoi ben quindici personaggi portati in scena in un'ora e quaranta di atto unico, ma che sono composte secondo una maestria compositiva che sa gettare su ognuno (quasi, personalmente la morte di Kostylev ci ha lasciato indifferenti per un facile accanimento anti-capitalistico che, d'altra parte, è presente in molta coeva letteratura russa) di essi uno sguardo partecipe e mai banalmente consolatorio. "Io sono una spugna che non si asciuga mai" dice infatti fieramente il Barone in una delle sue tantissime sortite alcoliche. Proprio la fisicità della vodka e della vita che gira attorno alla ricerca di un bicchierino è una delle cose migliori del testo e di questa rappresentazione. Gli ospiti di questo (uno dei troppi) albergo dei poveri, di fronte ad una condizione sociale che non si sanno spiegare e dalla quale non sanno fuggire, si abbrutiscono con pieno volere, rifiutando persino le rade occasioni di uscita dalla miseria (Aleska, forse il più smarrito nonostante la giovane età) pur di continuare ad annegare i propri problemi nel più tossico dei liquidi. In questo crudo ritratto di un pezzo di società primo-novecentesco che aspira ad essere un monito per le tante simili situazioni di questo tempo – d’altronde, al ritorno dallo spettacolo, ci è capitato di vedere tende di senzacasa anche davanti il Teatro Eliseo ad appena un paio di chilometri dall’Argentina – si agita come una scheggia impazzita di folle religiosità e santa compassione la figura del pellegrino, interpretato con inarrivabile carisma dallo stesso Massimo Popolizio. Con le sue menzogne e le sue storielle – bellissima quella sul paese dei giusti che agisce come un tarlo sull’ospite psicologicamente più fragile – l’uomo che non predica ma prega soltanto fa arrivare i suoi uditori ad una conclusione di sconcertante dolore: "Ma una vita senza Dio non ti prepara a una morte senza Dio". Ecco allora che in questo dormitorio di derelitti bisogna provare a fare, come questo apolide starec fa con Pepel (“un uomo dal cuore buono ma bisogna ricordarglielo ogni tanto”) e Natasa, il bene, confuso e randomico come forse può solo esserlo in mezzo a quei poveri cristi. Perché, in fondo, "Tutti insieme siamo uomini, da solo nessuno lo è".