Recensione a cura di Mario Turco
Stiamo parlando di "Roberto Zucco", di Giorgina Pi in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 27 Ottobre, una Produzione Teatro Nazionale di Genova, Teatro Metastasio di Prato e Romaeuropa Festival, in corealizzazione con La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello. Ultima opera scritta dal drammaturgo e poeta francese Bernard-Marie Koltès prima della sua prematura scomparsa nel 1989, la piéce prende spunto da un vero fatto di cronaca portando sul palco le gesta violente dell’italiano Roberto Zucco, mandato in prigione a diciotto anni per aver ucciso suo padre. Una volta evaso, il ragazzo torna a casa e ammazza anche la madre dandosi ad una fuga disperata, confusa e continuando a lasciare cadaveri sulla strada che lo porta a perdere la sanità mentale prima dell'ultimo e forse inevitabile arresto. La prima notazione da fare su Roberto Zucco è la peculiarità dello sguardo con cui Giorgina Pi si approccia alla vicenda reale. Attraverso il distanziamento tragico che fa del giovanissimo patricida (uno splendidamente antinaturalistico Valentino Mannias, all'inizio respingente ma poi sempre più morbosamente affascinante) un Mito da studiare nella sua esemplarità unica, la regista si toglie da qualsiasi impaccio giudicante. Ed è davvero incredibile che riesca a farlo proprio portando in scena in maniera spudorata forme e modi dell'inarrestabile estetica true crime che ha invaso prima il cinema e adesso le piattaforme. La bellissima scenografia che brechtaniamente cambia continuamente le scene sembra infatti presa di peso da una delle tanti produzioni di David Lynch (il bordello L’Or Blue) o Ryan Murphy (l’accanimento gelido sui delitti). Colori, suoni (interessante la scelta di lasciare continuamente rumori di fondo, come la lavatrice e lo sferragliamento della metro) e perfino personaggi di contorno funzionano quindi come un desolante coro greco – “è stata la disgrazia a sceglierci ed accanirsi contro di noi” - che contribuisce ad allargare l’indagine sul contesto in cui si muove il protagonista.
Come dichiarato infatti dalla stessa Giorgina Pi: “Questa dimensione dell’esistere è raccontata da uno straordinario coro di personaggi. Questa miriade di volti avvolge Zucco in un ritmo serrato, in un découpage che assomiglia a quello di una sceneggiatura cinematografica”. Una sceneggiatura che sembra difatti scritta da un Prévert del male, piena di piccoli versi di orrore quotidiano (“ci vorrebbero più cadaveri e meno papponi”) e di tragedie collaterali (il fratello in odore di incesto che vende la sorella), che piano piano si astrae da quel nauseabondo realismo per, provocatoriamente, sconfinare in un grottesco ancora più marcio. “Io non sono un eroe – dice Zucco in uno dei passaggi emotivamente più chiaramente politici di un testo che dopo aver suggerito, soltanto alla fine si afferma a sentenziare – Gli eroi sono dei criminali. Non c'è eroe i cui abiti non siano inzuppati di sangue, e il sangue è la sola cosa al mondo che non possa passare inosservata. E' la cosa più visibile del mondo. Quando tutto sarà distrutto, e una nebbia da fine del mondo ricoprirà la terra, resteranno sempre gli abiti zuppi di sangue degli eroi”. O la voce di un fuggiasco-dio che dall’alto di un tetto-cielo si chiede, come se fosse ancora un terribile bambino assassino, se anche il sole ha un sesso di cui si vergogna.