La recensione di "BlacKkKlansman", di Spike Lee. Al cinema dal 27 settembre

Recensione a cura di Mario Turco

Il mondo del cinema necessita di un autore come Spike Lee ma non ha sicuramente bisogno di uno che faccia Spike Lee, nemmeno se a provarci è Spike Lee stesso. Negli ultimi anni il regista di New York si è diviso tra progetti che lo chiamavano in causa in quanto più famoso esponente della minoranza nera sempre pronto a battagliare per la parità razziale (Chi-raq) e inutili remake di capolavori coreani (non lo scrivo nemmeno ché il ricordo è ancora troppo doloroso). Ed è curioso come adesso sia una produzione giovane e quasi fuori dal genere come il Jordan Peele del troppo celebrato “Get it-Scappa” e Jason Blum, Re Mida del nuovo horror a basso costo ma alto incasso, ad averlo voluto alle redini di “BlacKkKlansman”, nelle sale italiane dal 27 Settembre

Basato sul libro autobiografico di Ron Stallworth, che poté pubblicarlo solo una volta dimessosi dalla polizia, racconta di come egli, primo agente nero di Colorado Springs, riuscì ad infiltrarsi nella sezione locale del Ku Klux Klan (dalle tre K la divertente iconografia del titolo) fino quasi a diventarne il capo. Evidentemente un soggetto dalla così forte caratterizzazione, in un’epoca come la nostra che continua inesorabilmente a ri-fagocitare rigurgiti razzisti che avevamo creduto di digerire decenni addietro, secondo i detentori dei diritti del libro ben si prestava ad essere ulteriormente stratificato attraverso la lettura partigiana di Spike Lee. Ci voleva insomma il coraggio politico-etnico dell’autore di “Fa’ la cosa giusta” per portare su schermo una vicenda che non sarebbe mai potuta essere innocente. Ed invece, al netto delle molte cose riuscite, “BlacKkKlansman” avrebbe forse avuto bisogno di una mano più leggera. Sia chiaro, sono tanti i momenti e le scelte fatte con oculatezza, dalla direzione degli attori (un Adam Driver dimesso ma non sciatto) al brillante epilogo dove Alec Baldwin interpreta un divulgatore razzista alle prese con un goffo discorso e che scatena grasse risate sino ad arrivare alla solita pregevole confezione estetica. Soltanto che il mix di generi di cui è imposto il film, crime-comedy-drama, si trova nettamente sbilanciato verso quest’ultimo a causa della predilezione di Spike Lee per il tema della giustizia razziale. A cominciare dal tranciante manicheismo di dividere i buoni e cattivi in due fazioni così eccessivamente forzate da risultare mai credibili in una vicenda che è invece tratta “da una fottuta storia vera” come ribadisce l’incipit; la struttura narrativa sbanda sempre quando il regista costruisce scene madri che nelle scuole di cinema dove il newyorkese insegna hanno smesso da anni di far imparare ai propri studenti. 

Era proprio il caso, ad esempio, di santificare gli anonimi ascoltatori dell’arringa di Kwame Ture con ripetute inquadrature che li stagliano come consapevoli esponenti della lotta di razza su sfondo pece? E giova poco pure far di Patrice, giovane rappresentante degli studenti neri, una bellissima ed intrepida attivista dei diritti civili la cui condotta non trova mai momenti di stanca, nemmeno nell’attrazione che prova verso il “maiale” poliziotto di cui si è infatuata. Riguardo proprio alle figure femminili ancora una volta è troppo squilibrata la differenza tra la coolness afro di Patrice e la pinguedine wasp di Connie, la moglie dello squilibrato Felix. Perfino il montaggio alternato tra il novantenne Harry Belafonte che racconta il feroce linciaggio ai danni di Jesse Washington, ragazzino nero accusato di omicidio e ucciso da una folla di manifestanti bianchi con l’avallo delle autorità (per i particolari macabri rimando qui) e la contemporanea iniziazione al Ku Klux Klan del finto Stallworth, scena che dovrebbe essere contemporaneamente climax del film e apoteosi dell’intera carriera di Lee, risulta disinnescata dalla caricatura a china grossa di tutti gli esponenti dell’Organizzazione razzista più famosa degli Usa. 

Se le Black Panthers di Colorado sono tranquilli agitatori anche quando minacciano rivoluzioni con la pistola (sic) non si comprende, di contro, come il Klan possa essere così pericoloso visto che è guidato da un’accozzaglia di idioti, folli, esaltati che si vestono tra le altre cose, fatto non risibile nei Settanta della blaxploitation in cui è ambientato il film, malissimo. La retorica esplode nel finale con l’insistito collegamento coi fatti di Charlottesville e la bacata risposta (o meglio, assenza di risposta) trumpiana in una misura che fa di “BlacKkKlansman” più che un’opera di denuncia una concione politica fatta da un militante che dimentica che eravamo venuti a vedere un film che stimolasse riflessioni più che ascoltare il cronachismo, visibile a chiunque disponga di una connessione Internet, della deriva dei tempi.

LIBRI & CULTURA CONSIGLIA...