Recensione: Moby Dick. Prove per un dramma in due atti, di Orson Welles

Titolo: Moby Dick. Prove per un dramma in due atti
Autore: Orson Welles
Editore: Italosvevo
Pagine: 116
Anno di pubblicazione: 2018
Prezzo copertina: 13,50 €


Recensione a cura di Mario Turco

Ad Orson Welles nulla avrebbe dovuto essere precluso ma quasi tutto lo fu. Celebre per quello che riuscì a fare in vita, che si trattasse di radio (“La guerra dei mondi” recitata a ventitre anni con tale impeto che la famosa leggenda vuole abbia fatto precipitare in strada gli statunitensi per la paura), cinema (“Quarto potere”, forse miglior film del secolo, scritto, diretto e recitato a soli 26 anni) e teatro, fu altrettanto famoso per gli insuccessi e i
grandiosi progetti abortiti ancor prima di nascere. 

Moby Dick-Prove per un dramma in due atti”, edito da Gaffi Editore nella collana Piccola Biblioteca di Letteratura Inutile (complimenti per il nome avanguardistico!) con la traduzione di Marco Rossari si situa esattamente al centro, come discrimine tra i successi e le ambiziose creazioni liminate in partenza da produttori che volevano castrare quell’immenso talento per condurlo verso più miti e redditizi esiti. L’incontro tra il genio di Welles e quello altrettanto incompreso di Herman Melville è da Paolo Mereghetti, il più famoso critico cinematografico italiano che da decenni compila l’omonimo e imprescindibile dizionario di cinema, è già ravvisabile a suo avviso, nella breve introduzione che precede l’edizione da noi recensita, nel capolavoro “Citizen Kane” dove la slitta Rosebud (in italiano tradotto nell’osceno Rosabella) è uno dei tre nomi che aleggiano sulla nave Bocciuolo di Rosa incontrata dal Pequod poco prima dell’avvistamento finale della balena bianca. Al di là di questa curiosità cinematografica, Mereghetti ricorda giustamente come nel 1955, anno di questa riscrittura wellesiana di “Moby Dick”, l’attore americano avesse già interpretato padre Mapple nella versione filmica di John Huston che avrebbe però visto la luce delle sale soltanto l’anno dopo. 


L’allusione, nemmeno tanto velata, è che forse Welles volesse rendere giustizia all’opera scrivendone una riduzione che non sarebbe dovuta essere soltanto mera rappresentazione dei fatti occorsi nel libro (e checchè si possa lodare la regia invisibile di Huston, la sua trasposizione in effetti riuscì a trasmettere solo un’oncia dell’epica melvilliana). La megalomania, o quantomeno la sua tendenza a complicare sempre le cose, fece sì che si concentrasse proprio su un testo che prevedeva tantissima azione spalmata nell’arco di più di 500 pagine in un contesto oceanico. Poco prima del debutto, ad esempio, il Times aveva manifestato dubbi legittimi sull’impossibilità di una tale messa in scena dato che la storia narrava di un “comandante impazzito di una baleniera che insegue una balena albina fino in Antartico dove causerà la fine propria e del suo equipaggio”. Conscio di non poter mai eguagliare mimeticamente l’originale Welles, forse nemmeno intenzionato a provarci, sceglie allora una strada opposta: immagina il suo “Moby Dick” in uno stato embrionale nell’atto di una prova di un’oscura compagnia teatrale di fine Ottocento. Così facendo può giustificare la povertà della scenografia ed essendo ancora in una fase di studio si diverte a far interagire gli attori con le improvvisazioni del direttore di scena. 


Nella prima parte i componenti della compagnia sono riottosi a quest’opera perché li interrompe dal rifacimento del “Re Lear” di Shakespeare che avrebbero dovuto portare in tournèe. Qui Welles illustra attraverso alcune sapide recriminazioni le difficoltà che i geni di ogni tempo con la portata rivoluzionaria delle loro opere incontrano. Nuove scale di valori e nuovi parametri di bellezza sono quasi sempre respinte al loro apparire per poi essere magnificate anni dopo. All’obiezione posta dal vecchio professionista del “Moby Dick- Prove per un dramma in due atti” che questo nuovo testo non si possa portare su un palcoscenico il giovane attore ad esempio controribatte che anche dell’opera del Bardo i critici dicevano che era irrecitabile. Appare scontato, soprattutto alla luce delle future traversie produttive che nella maturità si acuirono, che qui l’autore de “L’infernale Quinlan” stia anche parlando di sé stesso e che sia proprio questa triangolazione la parte più interessante dell’opera. Peccato che duri soltanto un terzo del testo e che per il resto Welles si limiti a riportare in versi alcune parti del capolavoro in prosa di Hermann Melville. Una grande trovata foriera di riflessioni viene divorata dall’increndibile luccicanza della balena bianca. Che non sarà malvagia come la credeva il capitano Achab ma continua a divorare tutti gli autori che s’imbattono in essa.

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