Recensione: La vanità dei pesci pulitori, di Matteo Monforte

Titolo: La vanità dei pesci pulitori
Autore: Matteo Monforte
Editore: Frilli
Pagine: 208
Anno di pubblicazione: 2019
Prezzo copertina: 14,90 €


Recensione a cura di Mario Turco

Il giudizio critico verso alcuni libri è dettato semplicemente da una questione d'età. Letti da adulti alcuni romanzi mostrano i limiti dell'entusiasmo giovanile che ce li aveva fatti amare da ragazzi, altri invece aumentano il loro impatto su di noi perché finalmente diventiamo capaci di cogliere tutte le sfumature nascoste. Nel caso de La vanità dei pesci pulitori, di Matteo Monforte pubblicato da Fratelli Frilli Editori nella collana SuperNoir Bross dobbiamo compiere un'operazione speculare per poterne scrivere senza eccessiva spietatezza.
Dobbiamo cioè immaginarci adolescenti acneici alle prese con le nostre prime letture e abbandonare le solide sovrastrutture culturali acquisite faticosamente nel corso degli anni. Non è solo una questione di target: il romanzo di Monforte è scritto in una maniera tale che lo rende contemporaneamente amabile a un quindicenne che nella sua bibliografia di lettore tra i suoi dieci titoli vanta due opere di Bukowski ed allo stesso tempo indigesto a chi della letteratura di genere ha fatto il suo fortino pur non rinunciando agli alti classici. 

La vanità dei pesci pulitori” è il terzo episodio della saga che vede protagonista il pingue trombettista jazz Martino Rebowski, nolente investigatore che in questo romanzo deve cercare di capire/ricordare del perché una mattina egli stesso si sia risvegliato nella stanza di un albergo cinese vestito da prete. L'incipit del primo capitolo è il manifesto di quello che troveremo nel corso delle agili 200 pagine: “Non so se vi è mai capitato di svegliarvi da soli, all'improvviso, nella camera di uno squallidissimo albergo ad ore, alle dieci del mattino, vestiti da prete, con la testa che vi esplode, una bottiglia di gin vuota per terra, segni evidenti di sniffate di cocaina sul comodino, alcuni mozziconi di cannone nel posacenere, del vomito sulla moquette (il vostro, del resto, lo riconoscereste tra mille), un dvd porno in pausa nello schermo della piccola tv, alcuni preservativi aperti, un bisogno vitale di trangugiare almeno dieci litri di acqua ghiacciata, e con la proprietaria cinese furibonda che vi bussa alla porta urlando “devo pulile, devo pulile!”. Narrato come si vede in prima persona, con alcuni intermezzi scritti in terza che rappresentano il punto di vista dell'assassino, il romanzo di Monforte strizza da subito l'occhio al lettore chiamandolo in causa e instaurando un dialogo con lui attraverso la messa in scena di tutti quegli elementi borderline così fascinosi: il sesso a pagamento, l'alcol, le droghe leggere ed una scanzonata irriverenza (la battuta sulla cinese che in seguito verrà sostituita da un manifesto ateismo).

L'indagine ha come sfondo Genova e suoi locali tra i quali il protagonista perennemente in bolletta si arrabatta cercando di scroccare alcolici il più possibile e facendo domande sulla morte della ragazza che è stata vista la notte dell'omicidio con lui prima di quel risveglio traumatico. Siamo quindi dalla parte del noir disincantato ed ironico (l'autore ha scritto i testi di famosi comici televisivi), genere dove l'Italia eccelle e dove lo stesso Monforte dichiara apertamente di andare a pescare citando alcuni autori quando Rebowski, in un momento di difficoltà, tenta di farsi una cultura giallistica. Solo che l'autore genovese sceglie di concentrarsi più sull'aspetto leggero della vicenda e relega la storia ad una meccanica quanto priva di sorprese serie di chiacchiere. Rebowsky non indaga, mai: va solo in giro chiedendo informazioni e battibeccando praticamente con chiunque, dalla mamma alla sua amica Marilù. I dialoghi sono insomma l'unico motore della vicenda ma, a meno appunto che non si abbia 15 anni e si cerchi di sfuggire alla convenzionalità del mondo con l'altrettanta ovvia iconoclastia all'acqua di rose di cui il libro è pregno, arrivano ad irretire ben presto. Le battute e i manifesti sulla pigrizia, sull'indolenza, sulla canne da farsi a qualunque ora del giorno non interagiscono con nessun altra componente finzionale e restano gli unici appigli di una scrittura antica sia nella forma che nella sostanza. Citiamo a mò d'esempio Rebowski che quando non ricorda una cosa fa una telefonata invece di cercarla su Internet, i dvd porno, le prese in giro sull'etnia, tutti fattori che retrodatano il libro ai primi anni Duemila. Gli anni appunto delle prime letture di Bukowski e le prime visioni de Il grande Lebowski.

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