Recensione: Lo stradone, di Francesco Pecoraro

Titolo: Lo stradone
Autore: Francesco Pecoraro
Editore: Ponte alle Grazie
Pagine: 443
Anno di pubblicazione: 2019
Prezzo copertina: 18,00 €


Recensione a cura di Mario Turco

Per scrivere de “Lo stradone” di Francesco Pecoraro edito da Ponte alle Grazie in questo anno di (dis)grazia 2019 si adotterà una forma consimile al libro oggetto di tale disamina. Se il rifiuto della forma romanzesca in quest'ultima fatica è portato avanti ancor più pervicacemente dall'autore romano rispetto al precedente e fortunato “La vita in tempo di pace” (2013), si intende con questa breve disanima fornire un terreno di raffronto che permetta di riflettere sul contemporaneo ripensamento della recensione secolarmente detta Romanzo. Partiamo dalla parola che campeggia fintamente nascosta sin dalla copertina in cui l'autoreferenzialità dell'ex-architetto divenuto nel corso degli ultimi anni grande caso editoriale/letterario (in Italia
per formazione scolastica le due nozioni viaggiano ancora appaiati) è gonfiata tramite l'inserimento di un bel disegno a carboncino di mano autonoma.

La parola romanzo è vergata in minuscolo, di lato rispetto ad statua ripresa da dietro tratteggiata con pochi tratti nervosi e di cui non si lascia vedere la fisionomia. È il correlato simbolico della forma romanzo che “Lo stradone” persegue lungo il corso delle sue 443 pagine: il testo ottocentesco per eccellenza è ancora qui, adombrato nella sua interezza ma in maniera oscura, velata, quasi negata in alcune sue componenti. Un libro ambientato fintamente qualche anno dopo il suo vero anno d'uscita è impossibile non venga ibridato dalle forme del web e dei social, di cui Pecoraro ha ampia esperienza (ha tenuto per anni un blog molto seguito ed è una presenza attiva sulle piattaforme). Ne consegue che la tenue storia verticale di un pensionato che tutto osserva e giudica dal settimo piano della Palazzona affacciata sullo Stradone è spezzata continuamente da inserti orizzontali sulla vita a largo raggio della Sacca e più oltre della Città di Dio.

Le maiuscole continue, le allegorie non cifrate (Valle Aurelia e Roma i set d'ambientazione facilmente individuabili di questo resoconto nichilista), la commistione tra saggio e storytelling sono insomma i leitmotiv di una narrazione pienamente Duemila, figliol prodiga di una tecnologia che l'ha saputa rinnovare dopo l'iniziale incertezza accademica. Questa serie di notazione critiche su questo domani semi-apocalittico così pericolosamente vicino al degrado odierno della Capitale si realizza attraverso inserti di brillante sintesi nei migliori casi come questo: «Noi, allevati al marxismo novecentesco, sappiamo che civiltà è non competizione, insomma ansia tendente allo zero, cioè Ministero» o come questo: "La città che costruiamo è un prodotto collettivo; la città demmerda è un’incerta, auto-celebrante, messa in figura della gente demmerda che ci abita e che la costruisce. Niente di più, ma neanche niente di meno". Solo che Pecoraro sceglie fin troppo di immergere i panni nel Tevere vernacolare mutuandone non solo il dialetto ma i gretti modi di pensiero: “Ieri decimo tentativo dell’Azienda elettrica di riparare quattro lampioni rotti da mesi. Non ci riusciranno, perché non lo vogliono veramente. Oppure fanno finta, sono attori, figuranti vestiti d’arancione. Forse questo tratto di Stradone è solo l’allestimento scenico di un reality a bassa intensità, forse la stessa città è solo un esperimento scientifico per testare cosa succede quando non crediamo più a niente e non ci importa niente e ci applichiamo solo al Gratta & Vinci, alla fettina, alle zucchine lesse, mentre piove a dirotto tutti i pomeriggi”.

Il Porcacci, fantomatico bar dove l'uomo qualunque ha l'ultima romanesca icastica parola, è centro gravitazionale di luoghi comuni popolari basati sul sentito dire o letto distrattamente o ascoltato pigramente in tv. La stanchezza ideologica di Pecoraro, continuamente ribadita dall'utilizzo del termine "novecentesco" per rimarcare la distanza tra la sua formazione politica-culturale di ex-comunista e la classe dirigenziale degli ultimi due decenni cresciuta a pane e rimasticamenti culturali, dà vita ad una serie di quadretti di sconfortante nichilismo. Ne "Lo stradone" lo sconforto del pensionato protagonista del racconto viene cavalcato senza indugi, come se all'inevitabile decadimento fisico dovesse corrispondere la marcescenza del pensiero più progressista. Il capitolo dove questo rifiuto del dialogo con realtà diverse genera un rabbioso isolamento è quello in cui l'autore affronta gli estremisti islamici rimarcando la subalternità degli orientali: «Genti che vivono a uno stadio di civiltà che precede di mille anni quella occidentale, che hanno una visione normativa e fatale e divinata della vita e dell’ultra-vita, stabilita dai vaneggiamenti teocratici di un beduino delle sabbie, genti che forse hanno inventato i numeri, ma poi non hanno mai scritto equazioni come quelle di Newton (avrebbero potuto ma non lo hanno fatto), e nonostante odino la civiltà che l’ha costruito, un aereo poi lo prendono lo stesso...». Chiariamo però che “Lo stradone” è un libro volutamente irrisolto che fa del suo work in progress la cifra d'essere d'un esistenzialismo deluso, volto sì a dileggiare ma cercando di salvare al contempo alcune esperienze. Le pagine sulle fornaci del Quadrante e sulla visita di Lenin alla “Piccola Russia” rappresentata dal quartiere restano fortissime prese di posizione che seppur puzzino di “Novecento” sanno fornire alcuni spunti di ripartenza da questa immondizia che la città di Dio ammorba.

L'AUTORE
Francesco Pecoraro, romano, ha pubblicato per Ponte alle Grazie La vita in tempo di pace (2013; premio Viareggio, tradotto in cinque lingue). Ricordiamo gli altri suoi libri: i racconti di Dove credi di andare (Mondadori, 2007), le prose di Questa e altre preistorie (Le Lettere, 2008), le poesie di Primordio vertebrale (Ponte Sisto, 2012).

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