Recensione: Sillabario dell'amor crudele, di Francesco Permunian

Titolo: Sillabario dell'amor crudele
Autore: 
Francesco Permunian
Editore: Chiarelettere

Pagine: 208
Anno di pubblicazione: 2019
Prezzo copertina: 16,00 €

Recensione a cura di Mario Turco

Gettarsi a capofitto nell'abisso, guardare in faccia l'orrore per riportarlo su in tutte le sue deformazioni, nominare infine l'innominabile, in questo caso la pedofilia del clero cattolico, sono intenti nobili che da soli non bastano però per essere generatori automatici di buona letteratura. Ne è un esempio l'ultimo libro di Francesco Permunian “Sillabario dell'amor crudele”, edito da Chiarelettere nella sezione Narrazioni che s'immerge a più riprese senza mai respirare nelle acque più torbide del reale, oppresso dalla spinta delle sue ambizioni e dei suoi chiari intenti moralistici. L'origine di questo romanzo grottesco sta in questa dichiarazione di lampante e per certi versi disarmante (sarà esplicato più tardi il senso di questo aggettivo) sincerità: “Da non credente in nessun dio, la scrittura è la sola e unica religione in cui credo. L’unica in grado di proteggermi dal freddo alito dell’al di là, ben consapevole che – una volta morto – ogni uomo è destinato a diventare “il cane del suo nulla” (D’Annunzio dixit). Consapevole quindi (o quantomeno speranzoso) che ogni vera scrittura letteraria sfocia infine nel grande mare della Letteratura. Quella con la elle maiuscola, s’intende, non il quotidiano e fastidioso pigolio degli infiniti scribacchini di turno. Quella grande Scrittura cioè che testimonia ed esaurisce in sé tutte le voci del mondo, presenti e passate, comprese le cosiddette Sacre Scritture”.


Disarmante perché di fronte a una dichiarazione di poetica così netta non ci sono armi con cui il lettore può sperare di combattervi contro in quel proficuo campo di battaglia cognitivo che può essere la lettura di un romanzo. “Sillabario dell'amor crudele” fa infatti tutto da sé: trasfigura l'incandescente dato oggettivo delle violenze sessuali perpetrate ai danni di bambini nella storia assurdamente paradigmatica del protagonista, il nano Teodoro. Per far ciò si avvale di una struttura rapsodica, quasi episodica che prendendo spunto dalla compilazione di un sillabario scritto per parole chiave che toccano tutte le lettere dell'alfabeto racconti l'impossibilità della vittima di tali abusi di andare avanti con una vita normale. Permunian in poco più di 200 pagine fornisce il proprio sconsolante quadro di una società che seppur palesemente fantastica (la criogenesi dei coniugi Hofer, l'attacco dei piccioni per difendere Tortorella) dovrebbe annientare le difese argomentative degli uomini di fede. Il romanzo invece ben presto diventa un rosario di fattacci neri e nerissimi del quale francamente esistono esempi più autenticamente disperati nella grande letteratura al quale l'autore vorrebbe essere ascritto. Si ha come l'impressione che lo scrittore veneto si sia lasciato guidare dalle analogie lessicali/sintattiche creando una cornice a bella posta, come fosse un esperimento di scrittura creativa. Il tono finto scanzonato ma sempre didattico del racconto in prima persona di Teodoro non risparmia nessuno, dalla zia Mabilia che scrive lettere al Signore per trovare sfogo ai suoi repressi pruriti sessuali alla ex-moglie Romualda che lo tormenta con petulanti richieste di denaro e ancor peggiori rimestamenti mnemonici del loro breve sposalizio. La mancanza di una linea unica del racconto, (Teodoro salta temporalmente da un punto all'altro guidato solo dall'elenco di voci in pretestuoso ordine alfabetico e semantico) è sfruttata solo per questi quadretti di dissacrazione ed è per di più appesantita da una ricerca artificiale di assonanze letterarie coi grandi nomi del passato. 


Da Gesualdo Bufalino al pasticciere Guerre che riforniva Baudelaire di gelatine per lo stomaco sino ad arrivare alla stucchevole scientificità delle malformazioni analizzate tecnicamente o alla tavola delle annotazioni finali sono spesso sfoggi di erudizioni, perdipiù larvali, che s'esauriscono nel giro di poche righe senza riuscire a slabbarne il rigido tessuto narrativo. Perché quando sai dall'inizio che tutto cade e niente si salva dal tonfo puoi anche sillabarlo con amore crudele ma quello che vedi sarà sempre e solo il baratro. Troppo poco per fare della morte un'esperienza estetica.

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