La recensione del corto "Una nuova prospettiva", di Emanuela Ponzano

Recensione a cura di Mario Turco

Ancora una volta, nel 2020, il conflitto in Europa è tra noi e loro. Noi siamo gli stanziali, nati su un territorio che costruisce arbitrariamente un passato di tradizioni, valori e storie mentre loro sono i migranti, persone che quasi sempre si muovono per fuggire da fame, guerre e disastri ecologici. Ancora una volta in Europa si tracciano confini che hanno senso solo sulla carta e che invece di unire le differenze vogliono solo separarle temendo la rottura dello status quo capitalista e colonialista. Ma anche, e questa è la più bella ricorsività, è ancora una volta il cinema a spiegare attraverso il suo semplice/portentoso bagaglio tecnico quanto sia urgente il senso di saper guardare con occhi diversi al nostro presente per poterlo esaminare con una sensibilità più vicina all'intelligente accoglienza che allo stupido egoismo. “Una nuova prospettiva” , corto diretto da Emanuela Ponzano, riesce nei suoi 15 minuti di durata a sintetizzare in maniera folgorante il senso urgente dell'inquadramento critico che dovremmo avere quando discettiamo di “emergenza immigrazione”. Se non riusciamo a a liberarci delle pastoie dell'odierno linguaggio verbale dovremmo quantomeno affidarci alla poesia di quello audiovisuale. 


Una nuova prospettiva è stato l’unico film italiano in concorso al Torino Film Festival nella nuova sezione competitiva Torino 38 Corti, della trentottesima edizione del famoso festival internazionale che si è tenuto per la prima volta in streaming – a causa della Pandemia da Coronavirus – dal 20 al 28 novembre. Il corto di Ponzano – regista teatrale di lunga data e precedentemente autrice de “La slitta” selezionato ai Nastri d’Argento 2016 e perfino agli Oscar dell'anno successivo, è una produzione Redstring, Kaos e Offshore, con il contributo del fondo NUOVOIMAIE, in associazione con Framevox, Errare Personae e Playtimefilms con il Riconoscimento di U.N.A.R. La nuova prospettiva è quella che il ragazzo ungherese interpretato incisivamente dal giovane talento Zoltan Cservak (Il figlio di Saul, Oscar nel 2016 come Miglior Film Straniero) si trova ad acquisire inopinatamente nel bosco mentre con i suoi due amici cerca di far tesoro degli oggetti lasciati cadere dai migranti durante la fuga. Attirato dai resti di una casa sperduta nel fogliame autunnale il giovane troverà per caso una bambina che piange. Ma lei non è di questo mondo, o meglio, non lo è più perché quando il ragazzo la guarda dalla porta vede soldati nazisti portarla via insieme alla famiglia e altri prigionieri. Ponzano, avvalendosi del prezioso lavoro sui diversi formati (4:3 per il passato, 16:9 per il presente) della pellicola operato dal direttore della fotografia Daniele Ciprì, evidenzia come quelle singole storie siano purtroppo ancora legate. 


Il finale del corto palesa la denuncia civile del moderno sopruso: i 175 chilometri di filo spinato tirati su nel 2015 dal governo di Viktor Orbán per impedire il passaggio dei migranti è l'odierno correlato temporale della violenza nazista sui più deboli. L'immagine dell'orologio rotto abbandonato sull'erba, (accompagnate dalle note dal musicista forse più empatico del nostro cinema Teho Teardo) è il simbolo del tempo che calpestiamo con noncuranza: continuiamo ad erigere recinzioni metalliche perfino negli spazi a perdita d'occhio della natura. È la visione del passato che permette al ragazzo nel presente di redimersi dai furti restituendo alla persone accampate dietro la barriera di ferro gli oggetti loro sottratti. Non si può che essere allora d'accordo con la stessa regista: “La Prospettiva cinematografica permette la speranza di una prospettiva migliore oppure il ritorno all’eterna ripetizione del passato”. La chiusura del corto è affidata alle parole di Primo Levi che nella loro semplicità scandagliano il terribile l'abisso: “Perché la memoria del male non riesce a cambiare l'umanità? A che serve la memoria?”.

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