Recensione: Le api di vetro, di Ernst Jünger

Titolo:
Il giardino delle mille voci
Autore: Ernst Jünger
Editore: Guanda
Pagine: 256
Anno di pubblicazione: 2020
Prezzo copertina: 19,00 €

Recensione a cura di Mario Turco

In un passo molto famoso il filosofo tedesco Gunther Anders così scriveva al collega Martin Heidegger: ‘Lei mi ha insegnato che l’uomo è il pastore dell’essere, io constato di essere il pastore delle macchine’. Ai tempi di questa massima, il nazismo aveva appena mostrato gli indicibili orrori a cui la tecnologia poteva pervenire privandola definitivamente, ancor più di quanto era già avvenuto con l'invenzione della polvere da sparo, della sua innocenza. Anders però assegnava ancora all'uomo la capacità di essere il manovratore e non il manovrato dei suoi stessi manufatti. In un 2021 che faticosamente è riuscito a pervenire alla nozione di capitalismo della sorveglianza e a riconoscere con altrettanta pigrizia la mancanza di neutralità delle piattaforme digitali occorre ancora una volta tornare alla nascita della “età della tecnica” per cercare di rintracciare il fallimento teorico della supremazia del creatore tecnologico. E per farlo ci si affiderà ad un romanzo di Ernst Jünger, “Le api di vetro”, uscito per la prima volta nel 1957 ed adesso rieditato da Guanda nella sua bella collana “Narratori della fenice”. 


Accostato nella quarta di copertina un po' impropriamente ai quasi coevi “1984”, di George Orwell e “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley, questo libro del longevo scrittore tedesco non è in realtà incasellabile come puro prodotto della distopia novecentesca. Né d'altra parte può essere sbrigativamente liquidato come “romanzetto luddista con poca fantasia” (questi recensori/lettori frettolosi), dato che non ha intenti messianici come quello dei suoi più illustri colleghi. “Le api di vetro”, come scrive nell'acuto titolo della postfazione Giorgio Cusatelli, ha il carattere epifanico di un “tormento progettato per durare”. Innanzitutto nasce dalla penna dello “scrittore più inquietante tra quelli che in Germania non si opposero all'evento di Hitler con la scelta dell'esilio”, insomma un sedicente “anarca” con giovanili entusiasmi per l'ascesa nazista e già questo lo distanzia da moraleggianti anatemi. L'io narrante del romanzo, l'ex cavalleggero Richard, ha palesi ascendenze auto-biografiche, a partire proprio dalla rigida formazione militare: il soldato si sente un autentico uomo del passato e a più riprese manifesta il suo rammarico per avere assistito al passaggio dalle cariche a cavallo all'avvento dei carri armati. D'altronde, come scriveva nel suo diario Jünger stesso già nel ’42 da ufficiale nella Parigi occupata: “La vecchia cavalleria che dette nobiltà alla potenza nelle guerre napoleoniche, e perfino nella guerra mondiale, è finita per sempre. Le guerre sono dirette dai tecnici”. “Le api di vetro” ha per gran parte della sua durata un andamento solipsistico dove ai pochi fatti Richard inframmezza tante riflessioni sulla sua odierna condizione. Un soldato come lui nel nuovo mondo post-bellico è diventato presto un ingranaggio desueto: “Era venuta l’ora per me di mettere in disparte le idee fossili. Recentemente qualcuno mi aveva fatto notare che la mia conversazione brulicava di espressioni fuori uso, come ‘vecchi camerati’ o ‘afferrare qualcuno per la dragona’. Facevano un effetto comico ai giorni nostri, come i timori d’una vecchia zitella, che si dà ancora delle arie per la sua virtù stantia. Al diavolo, bisogna smettere”. Ecco che allora Richard tramite l’aggancio di un ex commilitone, l'intrallazzatore Twinnings che Jünger alona di un'aurea ammaliante, trova un lavoro da civile presso l'industriale Zapparoni. Il nome italico del geniale e rivoluzionario imprenditore che ha portato la robotica in ogni ambito della società è un chiaro omaggio all'ambientazione de “L'uomo della sabbia” di E.T.A. Hoffmann, e da quel capolavoro romantico lo scrittore tedesco trasporta il satanico mistero attorno il fabbricante di sofisticati robot che vanno dai mezzi in uso all’esercito a microscopici automi casalinghi per massaie indaffarate. 


“Le api di vetro”, come fosse uno degli insetti eponimi, a questo punto svolazza sulla figura di Zapparoni inebriata dal dolce miele del suo paradosso: l'uomo è la personificazione dell'epoca - quella del romanzo e la nostra di lettori - in cui una politica auto-deresponsabilizzatasi cede quote di socialità ad una tecnologia travestitasi da pastorella innocente ma che in realtà guida il gregge badando solo al profitto. Il paragone con i guru della Silicon Valley alla Steve Jobs o alla Jeff Bezos è immediato e alquanto stimolante. La straordinaria apparizione delle api di vetro, animali meccanici che Richard scorge dopo un fondamentale colloquio col suo futuro datore di lavoro, squarcia il velo di Maya di una tecnica corruttrice: dietro la straordinaria meccanizzazione del ciclo naturale dell'impollinazione si nasconde la più artificiale delle selezioni naturali che serve esclusivamente alla spoliazione capitalistica del nettare dei fiori. Dopo aver mostrato il suo cuore tematico, il romanzo implode su sé stesso depotenziando perfino la rivolta del suo protagonista fino a farla diventare placida sottomissione al mistico Zapparoni, forse già egli stesso il prodotto più eccezionale delle sue industrie. Il suo occhio azzurro infatti “era l’occhio d’un grande pappagallo azzurro, che avesse cento anni. La membrana nittitante appariva e scompariva. Non era l’azzurro del cielo, non era l’azzurro del mare, non era l’azzurro delle pietre: era un azzurro sintetico, escogitato in luoghi molto lontani da un maestro che voleva superare la natura. Lampeggiava sull’orlo dei fiumi più antichi del mondo, nel volo sopra le radure. A volte fra le piume si intravedeva un rosso stridulo, un giallo inaudito”. O il verde acido di un paradiso fiscale.

L'AUTORE
Ernst Jünger (Heidelberg 1895 - Riedlingen, Alta Svevia, 1998) scrittore tedesco. Volontario nel primo conflitto mondiale, idealizzò la guerra come prova di coraggio e presa di coscienza di ignote dimensioni psichiche, nel diario di guerra Tempeste d’acciaio (In Stahlgewittern, 1920), nei racconti di Fuoco e sangue (Feuer und Blut, 1925) e Ludi africani (Afrikanische Spiele, 1936), nei saggi La lotta come esperienza interiore (Der Kampf als inneres Erlebnis, 1922) e Il cuore avventuroso (Das abenteuerliche Herz, raccolti nel 1929). Nel saggio L’operaio (Der Arbeiter, 1932) polemizzò con il romanticismo politico e identificò nel lavoratore-soldato il rappresentante dell’epoca moderna, che ha distrutto in sé ogni individualità. J. fu nazista, ma già nel romanzo Sulle scogliere di marmo (Auf den Marmorklippen, 1939) si avverte il suo distacco dall’ideologia nazionalsocialista. Egli condannò quindi l’attacco alla Francia nel diario Giardini e strade (Gärten und Strassen, 1942), che fu proibito. Fra i suoi scritti successivi si ricordano il diario della seconda guerra mondiale Irradiazioni (Strahlungen, 1949), i romanzi allegorici Heliopolis (1949), Le api di vetro (Gläserne Bienen, 1957), e una serie di saggi, tra cui Cacce sottili (Subtile Jagden, 1967) e Numeri e Dei. Filemone e Bauci (Philemon und Baucis, 1973). La sua vasta produzione è continuata con il racconto Il problema di Aladino (Aladins Problem, 1983), il poliziesco Un incontro pericoloso (Eine gefährliche Begegnung 1985), l’autobiografico Due volte la cometa (Zwei Mal Halley, 1987, il cui titolo allude al fatto di aver visto due volte nella propria vita - 1910 e 1986 - la cometa di Halley) e con il volume Le forbici (Die Schere, 1990). La prosa di J., limpida sino alla freddezza, tende a trasfigurare la realtà in allegoria.

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