Titolo: La porta del male
Autore: Chuck Hogan, Guillermo Del Toro
Editore: Tre60
Pagine: 336
Anno di pubblicazione: 2020
Prezzo copertina: 16,80 €
Sull’accezione da dare al termine “kinghiano” si potrebbe aprire una diatriba tendente all’infinito, come la produzione letteraria del re dell’orrore: quali sono le caratteristiche stilistiche che connotano quest’aggettivo? È Stephen King ad aver convogliato a sé ed esasperato alcune delle tendenze della narrativa statunitense di genere o egli, in via del suo abnorme successo commerciale, ha saputo diventare capofila di una scuola che da lui prende le mosse?
Autore: Chuck Hogan, Guillermo Del Toro
Editore: Tre60
Pagine: 336
Anno di pubblicazione: 2020
Prezzo copertina: 16,80 €
Recensione a cura di Mario Turco
Questa domanda ci ricorreva continuamente nella mente durante ogni singola pagina delle trecentotrentasei del romanzo “La porta del male” (The Blackwood Tapes in originale), scritto a quattro mani da Chuck Hogan e Guillermo Del Toro ed edito da Tre60. Pur nella sua breve durata e, immaginiamo, nella sua doppia revisione, il libro segue tutti, ma proprio tutti, gli stilemi degli epigoni kinghiani rinunciando a qualsiasi tentativo di distaccamento dal più codificato dei dark-fantasy degli ultimi due secoli per una blandissima ed ennesima storia dell’occulto. È quasi inspiegabile come l’incontro tra un apprezzato autore di best seller apparso più volte nella classifica del New York Times – suo anche il “The town” portato sullo schermo da Ben Affleck –, Hogan, ed uno dei registi che silenziosamente è diventato sempre più centrale nel discorso audiovisuale degli ultimi due decenni, Del Toro, abbia prodotto una simile carabattola letteraria. Probabilmente è dovuto ad una simpatetica mancanza d’ispirazione dato che il loro primo progetto insieme nel 2009, “La Progenie” (The strain), aveva invece scaturito un buon romanzo ed un’ottima serie tv a tema vampirico. “La porta del male” prende le mosse da un pericolo ed un terrore quasi similari: in una concitata notte nel New Jersey, a Newark per la precisione, l’agente dell'FBI Odessa Hardwicke ed il suo collega Walter Leppo si trovano a dover gestire la follia omicida di Cary Peters, un politico accusato di corruzione che improvvisamente rapisce un aereo, spara con esso all’impazzata su larghe porzioni dello Stato per infine atterrare nel giardino della sua abitazione e sterminare la sua famiglia. Quando la giovane recluta arriva in casa dell’uomo s’accorge con lentezza – troppa, c’è differenza tra suspense e dilatazione esagerata dell’elemento thrilling – che la follia sembra essere passata, come una infida nebbiolina, al suo collega che infligge una coltellata alla figlioletta di Peters, unica superstite della mattanza familiare.
Odessa Hardwicke spara quindi, suo malgrado, all’agente uccidendolo sul colpo e intravedendo per un attimo il demone che aveva preso possesso del suo corpo fuggire via dissolvendosi nell’aria come un miasma maligno. Dopo essere stata sospesa dal servizio, la ragazza tramite intercessione dell’ex-agente Earl Solomon si rivolge in maniera misterica – una lettera imbucata in una cassetta delle poste di quasi impossibile localizzazione a Wall Street, piegata solo una volta ed inserita all’interno di una busta color camoscio – a John Blackwood che una sera si materializza nel suo appartamento come se fosse stato evocato più che contattato. Egli infatti è un detective dell’occulto – dichiarato a più riprese il doppio riferimento allo scrittore Algernon Blackwood, padre della letteratura soprannaturale, e al suo personaggio John Silence – che dopo un incantesimo fatto insieme al celeberrimo John Dee (che nel romanzo non viene trattato benissimo, per usare un eufemismo) ma andato a male nel 1500, astrologo e alchimista al servizio di Elisabetta I, è condannato per secoli a cercare di rimediare all’errore multidimensionale che aveva compiuto. “La porta del male” fa affidamento quindi su una trama che sembra una collazione dell’horror più commerciale: feroci demoni che minacciano l’esistenza del pianeta, una protagonista che squarcia per la prima volta il velo della realtà fisica, una movimentata caccia in giro per luoghi ed epoche storiche – il libro ha tre linee narrative diverse che intersecano il presente, gli anni ’60 del Novecento nel razzista Delta del Mississipi ed il ’500 inglese. Ma i fatti trascritti su pagina e lo stile con cui compie quest’operazione di omaggio/recupero del genere sono quanto di più mediocre si possa trovare in un mercato inflazionato come quello dell’horror: da personaggi che sarebbero bocciati in qualunque scuola di scrittura a causa della mancanza di particolarità al susseguirsi prevedibile dei colpi di scena, da una narrazione senza nerbo e dal taglio pedissequamente descrittivo al macchiettismo gotico di Blackwood che sembra uscito dalla mente acneica di un fan di Tim Burton della prima ora. Peggio dei kinghiani, solo i burtoniani, appunto.