Recensione: Essere o avere. Ma per essere devo avere la testa di Alvise su un piatto d'argento, di Lina Wertmuller
Titolo: Essere o avere. Ma per essere devo avere la testa di Alvise su un piatto d'argento
Autore: Lina Wertmuller
Editore: Gruppo Albatros Il Filo
Pagine: 238
Anno di pubblicazione: 2021
Prezzo copertina: 16,00 €
“Ogni regista cinematografico, quando è anche autore, ha cassetti pieni di storie che, per varie ragioni, non riescono ad approdare sullo schermo ed essere quindi condivise con il pubblico. Non si tratta solo di spunti, scalette o brevi frammenti, spesso sono storie complete, su cui l’autore ha lavorato a lungo, mesi o anni”. Nella sua introduzione, significativamente intitolata “Faldoni gialli”, al libro “Essere o avere. Ma per essere devo avere la testa di Alvise su un piatto d’argento”, di Lina Wertmüller pubblicato da Albatros, Valerio Ruiz – collaboratore della regista per oltre dieci anni e suo aiuto-regista per cinema, teatro di prosa ed opera lirica – racconta con concisione il segreto di Pulcinella degli autori baciati dalla fortuna e dal tarlo della prolificità: un archivio di progetti che per i motivi più disparati non hanno raggiunto il porto (felice?) della realizzazione.
Lina Wertmüller, all’anagrafe Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich (Roma, 14 agosto 1928 - 9 dicembre 2021), è stata una regista, sceneggiatrice e scrittrice italiana. È stata la prima donna nella storia ad essere candidata all’Oscar come migliore regista, per il film Pasqualino Settebellezze, nella cerimonia del 1977. Nel 2020 le è stato assegnato il Premio Oscar onorario.
Autore: Lina Wertmuller
Editore: Gruppo Albatros Il Filo
Pagine: 238
Anno di pubblicazione: 2021
Prezzo copertina: 16,00 €
Recensione a cura di Mario Turco
Così è stato per quest’opera che, pensata dapprima per essere trasposta su grande schermo durante la poco felice trasferta hollywoodiana della regista italiana, diventa invece un romanzo snobbato dalla critica letteraria e cinematografica negli anni Ottanta per infine uscire nuovamente nelle librerie a Settembre 2021, poco prima della morte dell’artista romana. Come raccontato ampiamente da Ruiz nella sua introduzione, “La testa di Alvise” (ridotto giustamente per essere meglio ricordato e venduto, di fronte al solito chilometrico titolo originale) nasce nel periodo creativo più fertile della filmmaker con gli occhialini bianchi e cioè al termine degli anni Settanta, dopo i capolavori “Film d’amore e d’anarchia”, “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” e “Mimì metallurgico ferito nell’onore”. Se già questa datazione cronologica non bastasse a stuzzicare l’attenzione del lettore, interviene l’aneddoto che “Woody Allen avrebbe interpretato il personaggio guida di questa storia” mentre Giancarlo Giannini “avrebbe invece impersonato il geniale Alvise”. Come si può intuire dalla progettata contrapposizione comica, l’unico romanzo di Lina Wertmüller ripropone il contrasto tra l’uomo di successo nella consumistica società del tempo Sam Silvermann, famoso scrittore di gialli che pubblica mensilmente (come se la sua ispirazione fosse effetto delle richieste del mercato editoriale) uno dei suoi efferati thriller, e Alvise Ottolenghi Portaleoni, sua specie di geniale alter-ego che in due momenti fondamentali della sua vita, da adolescente durante la Seconda Guerra Mondiale e nella tarda maturità quarant’anni dopo, lo obbliga a prendere atto della sua incoercibile mediocrità. Lo spunto del romanzo è molto interessante: cosa succede ad un uomo affermato, ricco e sessualmente dotato - le grottesche descrizioni del suo membro sono probabilmente l’indice più evidente del sottovalutato talento letterario di Wertmüller, da sempre a suo agio nell’esagerazione barocca di particolari ed ossessioni – quando si trova costretto a portare avanti un’amicizia con un individuo universalmente molto più apprezzato, danaroso e moralmente retto?
“La testa di Alvise” finge di rispondere a questa domanda mettendo su pagina la dicotomia tra l’avere di Sam, smanioso di non soccombere di fronte alla supremazia del suo amico/rivale, e l’avere di Alvise, esageratamente toccato dalla grazia fisica, spirituale e perfino terrena (il premio Nobel quasi ricusato per modestia e le ville messegli a disposizione dai suoi interlocutori arabi come ricompensa per l’intermediazione nel secolare conflitto tra Israele e Palestina!). Più che lotta di classe, come un po’ sbalestratamente evocato da alcuni commentatori, il romanzo esplora la battaglia tra due tipi di capitalismo: quello dell’uomo di successo che vede come suo must la Ferrari, per usare la metafora del secondo capitolo del libro, e quello dell’uomo appunto da Nobel, con dentro un grado di rettitudine da santone laico spendibile in conferenze in giro per il mondo patrocinate da Amnesty International. Anche se la narrazione in prima persona di Sam sembra insistere sulle bassezze perpetrate dal suo survoltato protagonista, in realtà nemmeno l’infallibile deuteragonista ne esce benissimo: il suo insistito accanimento nel salvare il suo piccolo compagno dagli orrori del campo di concentramento (forse l’unica pecca di un bellissimo romanzo è l’insistenza farsesca/picaresca della prima parte) e il successivo cieco mecenatismo verso la prima opera di poesia del suo prosaico compagno, seppur funzionali all’intento dissacratorio, evidenziano la disfunzionalità di un tale approccio pietistico che non scende mai davvero a fondo nella comprensione psicologica del soggetto aiutato per limitarsi alla filantropia occasionale. Non a caso nel cinico finale sarà lo sventurato Sam a perdere la vita infilzato in una balaustra: l’unto delle istituzioni Alvise vivrà invece per sempre.