Recensione: Fantasmi e ombre. Roma, James Joyce e Giordano Bruno, di Enrico Terrinoni e Vittorio Giacopini

Titolo:
Fantasmi e ombre. Roma, James Joyce e Giordano Bruno
Autore: Enrico Terrinoni, Vittorio Giacopini
Editore: Luca Sossella
Pagine: 108
Anno di pubblicazione: 2021
Prezzo copertina: 15,00 €

Recensione a cura di Mario Turco

Per parafrasare l’adagio, tre cose sono infinite: l’universo, la stupidità umana e “Ulisse”, di James Joyce. Il capolavoro letterario dello scrittore irlandese dopo un secolo sfugge ed allo stesso tempo attrae ogni tentativo di lettura con la sua scrittura enigmatica e rivelatrice, razionale e cabalistica, diretta ed allusiva. Un’opera unica e universale, sempre nuova anche allo stesso lettore che deve contentarsi di esperire per tutta la vita di epifanie critiche, proprie e di altri, in grado di gettare una nuova luce ad un materiale così stratificato. Una delle rivelazioni più sorprendenti di questi ultimi tempi è in tal senso “Fantasmi e ombre. Roma, James Joyce e Giordano Bruno”, di Enrico Terrinoni e Vittorio Giacopini pubblicato da Luca Sossella Editore che si propone, per la propria piccola ma abbacinante parte, di scoperchiare qualche segreto di un autore che “per il suo biografo Richard Ellmann, è uno scrittore di cui ancora dobbiamo imparare a divenire contemporanei. Lo scrisse nel 1960, ma è ancora verissimo”. 


Arricchito dalle bellissime illustrazioni dello stesso Giacopini, il libro sonda con particolare efficacia il rapporto intercorso tra l’opera e la figura del filosofo campano Giordano Bruno, come noto “abbruciato” dalla Chiesa Cattolica nel 1600 vicino a Campo de’ Fiori, e quelle di James Joyce che durante il suo breve soggiorno romano – sette mesi del 1907 – ebbe occasione di venire a contatto direttamente con un autore che aveva studiato sin da ragazzo. “Fantasmi e ombre. Roma, James Joyce e Giordano Bruno” nelle sue 108 pagine di estensione ha una struttura argomentativa a spirale che partendo dal centro dell’analisi di Enrico Terrinoni, traduttore dell’impossibile “Finnengas wake” ed ormai uno dei più attenti studiosi joyciani, s’allarga con le citazioni dirette (sia nelle lettere al fratello che nelle sue varie opere) che lo scrittore irlandese dedicò all’eretico italiano, fino al racconto di Vittorio Giacopini che ammanta la sua analisi con i ricordi personali e sociali dell’estate romana del ’77 in cui lesse “Ulisse” per la prima volta. Come se volesse dar seguito a quello che aveva già scritto nella sua precedente opera "Su tutti i vivi e i morti - Joyce a Roma", quando aveva definito la tecnica di Joyce come il tentativo “di far confluire realtà differenti e immaginate distanti in uno stesso continuum alla fine fossero anche e soprattutto un modo per esorcizzare le sue paure, le sue fobie, le sue ossessioni e per sistemare conti lasciati in sospeso con le ombre del passato”, Terrinoni nella prima parte analizza alcuni dei fatti più significativi del soggiorno romano dello scrittore provando a tirare le file delle successive e mature rielaborazioni nei suoi due libri più importanti. 


“L’anima ha una nascita lenta e buia, più misteriosa della nascita del corpo. Quando in questo paese è nata l’anima di un uomo, le vengono gettate reti per impedirle di fuggire. Tu mi parli di nazionalità, di lingua, di religione. Io cercherò di sfuggire a queste reti" - aveva affermato Stephen Dedalus ne “Ritratto dell’artista da giovane”, poi come sappiamo ripreso ampiamente nella prima parte de “Ulisse”. Ecco allora che il 307esimo anniversario, il 17 Febbraio 1907, del rogo in cui Giordano Bruno fu ucciso per il suo diniego a commettere apostasia, sebbene sia descritto da Joyce con toni alquanto asciutti – ma fu tutta la sua durata del soggiorno romano a deluderlo, salvo rappresentare in futuro fecondo materiale da cui attingere, come sottolinea giustamente Terrinoni – rappresenta il suo peculiare modo di sfuggire dalle catene dogmatiche di un magistero in precedenza rivendicato con più orgoglio. Non solo per la coincidenza quasi perfetta della rispettiva teoria della coincidenza degli opposti, che Joyce riesce a rendere grammaticalmente con la sua incredibile magnificenza scritturale ma anche per la ripresa di alcuni temi (il “poor ass”, protagonista del terzo capitolo de “Finnengans wake”, che è un chiaro omaggio al tema dell’ “asinità buona” del frate domenicano) e di carsici ritorni del lemma “nolan” e dei suoi migliaia di derivati ed eteronimi. In questa attenta e scorrevolissima disamina giocano un ruolo fondamentale le ricorrenze figurali di Giacopini che accompagnano il testo e lo rilanciano attraverso l’uso espressivo dei colori primari e linee solo apparentemente scontornate, in realtà piene. Le continue variazioni della statua bronzea di Giordano Bruno sembrano fissarci anche dalla pagina scritta con la severità del suo sguardo e l’opprimente posa, come se fossero altrettanto duri moniti a considerare mai terminata la correlazione fantasmatica tra Roma, Giordano Bruno e James Joyce: i legami tra questi (ed altri termini, per chi sa vederli) sono infiniti come i mondi. Il caosmos – uno dei più bei neologismi joyciani – è solo un cosmo pieno di caos dove l’ordine può essere continuamente ri-stabilito. Un multiverso prima della Marvel, insomma, dove il sacrificio dell’eroe Giordano Bruno permette al suo discepolo James Joyce di salvare l’umanità dalle tenebre dell’ignoranza.

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