Recensione: La camera oscura di Damocle, di Willem Frederik Hermans

Titolo:
La camera oscura di Damocle
Autore: Willem Frederik Hermans
Editore: Iperborea
Pagine: 448
Anno di pubblicazione: 2022
Prezzo copertina: 19,50 €

Recensione a cura di Mario Turco

In “Strade perdute”, di David Lynch recentemente uscito di nuovo nelle sale in una stentorea versione rimasterizzata – i Rammstein non sono mai stati così potenti nemmeno dal vivo! – il sassofonista Fred Madison assume l’identità/transmigra la propria anima/vive un loop temporale nei panni del meccanico Peter Raymond Dayton. La frustrazione dell’impotenza sessuale nei confronti della bellissima moglie e i dubbi sulla sua fedeltà coniugale, giunti ad un livello di parossismo non più sopportabile, vengono così vissuti e spiegati tramite le arcane vicende di un doppelgänger che si muove in una sordida realtà sempre sospettata ma mai esperita realmente. 


Questa lunga premessa serve a dire che come in un nastro di Möbius transmediale, ecco che il tema del doppio non sembra poter mai arrestare la sua corsa e percorre anche l’ultima lettura fatta, consistente in questo “La camera oscura di Damocle”, di Willem Frederik Hermans pubblicato da Iperborea con la traduzione di Claudia di Palermo, pp. 448. Apice della letteratura nederlandese della seconda metà del Novecento, il romanzo di Hermans torna finalmente in Italia in questa edizione che ha il merito di portare alla ribalta per una generazione generalmente poco attenta verso la letteratura dei Paesi Bassi uno degli esempi più illuminanti di una scrittura in felice limine tra la speculazione germanica ed il bizzarro inglese. “La camera oscura di Damocle” prende l’abbrivio dalle tristi vicende familiari del giovane Osewoudt – la madre psicolabile uccide il padre quando il protagonista è appena un ragazzo – e dal successivo riposizionamento sociale per cui, appena diciottenne, quasi coartatamente egli sposa la brutta cugina di sette anni più vecchia ed eredita la tabaccheria dello zio che l’ha adottato. Siamo nel 1939 e mentre la Germania occupa l’Olanda, Osewoudt si contenta senza farsi troppe domande di dirigere con alacrità e qualche tocco bizzarro (il cartello all’uscita “Non avete dimenticato niente?”) il suo piccolo negozio sito nell’altrettanto circoscritta Voorschoten. La guerra però, come sappiamo, non cambia solo il destino delle grandi nazioni ma anche quello degli uomini comuni. Ecco allora che nella tabaccheria del glabro, esperto di judo e femmineo protagonista – magistrale i piccoli tocchi destabilizzanti con cui Hermans caratterizza il suo piccolo grande uomo – entra e comincia ad impartire strani ordini Dorbeck, un ufficiale olandese uguale a lui in tutto, ma meglio. Come ammette lo stesso Osewoudt in una penetrante epirandelliana auto-analisi: “Sai, è un po’ difficile spiegarlo, ma è più o meno quello che succede nelle fabbriche: ogni tanto esce un prodotto con un difetto, allora ne fanno un altro e scartano l’esemplare malriuscito… Solo che io non sono stato scartato, pure se difettoso ho continuato a esistere. E non me n’ero mai reso conto, finché non ho incontrato Dorbeck. […] L’unico modo per rendermi accettabile era fare per filo e per segno come mi diceva. Ho fatto tutto quello che mi ha chiesto, ed è stato parecchio…”. 


Dorbeck, infatti, oltre ad essere la versione più mascolina (la presenza di una barba nera e di una maggiore risolutezza) del tabaccaio, sconvolge come un’esplosione l’esistenza del suo simile. Il primo incarico è però all’apparenza semplice: sviluppare un rullino di foto e portarlo ad un indirizzo preciso. Ma come se avesse aperto la voragine alla follia della guerra da quel momento in poi le missioni si faranno sempre più cruente, fino ad arrivare all’esecuzione di traditori e a dolorosissime incarcerazioni. “La camera oscura di Damocle” è una strana spy-story che pur conservando sempre un’ambigua e corrosiva cifra ironica – il travestimento da infermeria di Osewoudt, il liberalismo posticcio dello zio Naata e soprattutto la perenne sensazione che il guazzabuglio di sanguinolenti lavori sia un gigantesco imbroglio orchestrato da qualche misterioso buontempone – arriva nel corso delle sue oltre quattrocento pagine ad inchiavardare il suo protagonista a responsabilità drammatiche. Ecco allora che il romanzo pur mantenendo, come scrive nella postfazione un altro grande scrittore olandese dei nostri tempi, Cees Nooteboom, “una prosa minuziosa, a tratti quasi protocollare”, riesce ad avvinghiare il lettore alla terribile irrealtà del conflitto mondiale facendolo scivolare, insieme al sempre più colpevole Osewoudt, in una spirale di brutalità che l’amarissimo finale amplifica ancor di più. La barbarie della guerra rende perfino una camera oscura alla stregua di una spada di Damocle sul singolo uomo.

Willem Frederik Hermans (1921-1995) Narratore, poeta e saggista, oltre che professore di geografia all'Università di Groninga per quasi quindici anni, è stato uno degli autori olandesi più prolifici e versatili del XX secolo. Nel 1977 gli è stato assegnato il Prijs der Nederlandse Letteren, uno dei premi più prestigiosi per la letteratura in lingua nederlandese. Dei suoi libri, tradotti in tutto il mondo, in Italia è stato pubblicato il romanzo Alla fine del sonno (Adelphi 2014), uscito nei Paesi Bassi nel 1966.

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